giovedì 8 ottobre 2009

Nonna, dov'è Santiago?

Se fossi capace di raccontare una storia, e di raccontarla con un film, e se sapessi adoperare la macchina da presa, farei cominciare il racconto della mia infanzia con l’immagine di quel terrazzino interno separato dall’abitazione attigua da un muretto alzato per dividere quella che una volta era stata un’unica casa, sul quale si apriva tuttavia una porticina, che veniva tenuta chiusa a chiave, ma senza eccessivo rigore. A quel terrazzino si accedeva dalla porta finestra della cucina, che ricordo ora con le persiane chiuse, come un occhio addormentato da tempo immemore, tra la polvere, le foglie secche che nessuno spazza via, e qualche nido di rondine. Conservo questa cartolina in bianco e nero come icona di nostalgia senza fondo e morso acerbo nello stomaco, e rimpianto (non è l’età del rimorso, l’infanzia) per tutto quello che allora è rimasto inespresso con una parte infante di me che non è mai cresciuta.

Pochi ricordi, soltanto, ma forti e incisi nella memoria dei sensi e degli umori: gli insetti che mi camminavano sul palmo della mano facendomi sentire il solletico delle zampette, i giochi solitari con la palla e alcune improvvise preeccitazioni cardiache che mi facevano correre a stendermi sul letto per qualche secondo e poi passavano; e l’odore della frutta d’estate, il sapore dell’olio di ricino che mi veniva abboccato mentre mia madre mi teneva la testa e mi chiudeva il naso per costringermi ad aprire la bocca, così mia nonna poteva rovesciarmi dentro la cucchiaiata di purga. Erano i giorni di lunghe solitudini e di grevi silenzi, segnati dal passo lento di mia nonna, segreta a se stessa nel suo vestito tutto rigorosamente nero, con lo sguardo perennemente torvo e pronto al rimprovero e alla censura, e quel piccolo mondo che era casa mia attonito di paura per lo sconvolgimento che un suo improvviso rovescio nervoso poteva far accadere. Stanotte viene il diavolo e ti porta via era la sua minaccia più ricorrente, e la notte diventava il dominio della paura e dell’incerto, mondo del nero mortifero che spuntava minaccioso dagli interstizi dei muri come il muschio dalle parti umide e da ogni varco possibile. Qualche volta abbiamo chiesto, atterriti, No’, che dici, stanotte viene veramente il diavolo? e lei rispondeva compiaciuta SI.

Era stato soprattutto mio fratello a fare atterrito questa domanda, forse perché da piccolo, per svezzarlo, lei aveva costretto mia madre (costringeva sempre tutti, in ogni modo) a tingersi il petto col carbone, cos’ vedendo la mammella nera, il bambino si sarebbe spaventato e non ci si sarebbe attaccato. Così fu, infatti, e nella coscienza profonda del bambino si impresse l’immagine della maternità infernica distruttrice e spaventosa, luogo di attaccamento rimosso e di irraggiungibile sicurezza. Quel mondo angusto e piccolo si cuciva addosso alla mia pelle, impossibile da togliere, dandomi la triste consapevolezza che per me la vita non poteva essere diversa. Nonna, dov’è Santiago? chiedono i bambini in una poesia di Garcia Lorca, ma quei bambini sono in movimento, in marcia verso qualcosa che sa di paradiso in terra e di mèta attesa e voluta, mentre noi eravamo fermi su noi stessi. Ho chiesto anch’io tante volte, e in tanti modi, Nonna, dov’è Santiago? e lo chiedo ancora adesso: perché si sentono usci che si chiudono e gente che si muove e va, verso una direzione da scegliere, spinta solo da un’urgenza del cuore e cerca un’alba o un tramonto o una spiaggia mentre noi non cerchiamo niente? Perché noi mai? Perché questa paura dell’altro camuffata di disprezzo per l’altro? Perché noi qui ora e sempre, perché noi mai? Affacciato a guardare un fiume nel quale mai mi sarei dovuto bagnare, con la paura come unica bussola, vedevo mio padre ripartire, spesso prima che fossero finite le ferie, col suo passo lento e stanco e lo sguardo

di uomo incazzato, sopravvissuto alla persecuzione fascista che ora forse si chiedeva se ne fosse valsa la pena. Erano tristi quelle partenze, perché significavano una parentesi di vita diversa e altra che si chiudeva: i suoi racconti, l’odore delle sue sigarette mescolato a quello del caffè, i suoi racconti, le opere liriche ascoltate dalla radio a valvole che papà si portava con sé perché la nonna non voleva radio in casa…io vivevo i giorni immediatamente successivi con un senso fisico di lutto, di perdita irreparabile e inconsolabile, e forse era mio padre la Santiago dove allora volevo andare.

Mi consolava solo Gabriella, la bambina che abitava dall’altra parte del muro e spesso compariva dalla porticina. Occhi accesi a bullicame di frammenti di luce, Gabriella era la complicità, la bambina-giacinto che giocava con Peter Pan, e insieme mangiavamo i dolci rubati, ci nascondevamo e parlavamo fitto fitto sotto voce, per non farci sentire dai grandi. Gabriella non apparteneva, però, al mio mondo, al mio mondo non apparteneva nessuno, perché io ero una lumaca che si portava dietro una casa pesante, e neanche volevo lasciare scie perché mi richiamassero, mentre lei era festosa e cangiante come un canarino. Era mia solo per pochi momenti, e quei momenti erano per me l’attrattiva più festevole, e lei è stata forse l’unica donna amata senza il vizio dell’amore, col solo pulito trascinamento del gioco. Non l’ho dimenticata e non la dimenticherò e ogni volta che la vedo non penso mai alla bella e affascinante signora che è adesso ma alla bambina che mi dava dolci trasalimenti e mi restituiva la mia infanzia. Chissa quale ricordo è rimasto a lei di quei giorni ora che i relitti galleggianti delle nostre infanzie vanno verso una deriva remota. Registro solo che lei ebbe le sue mute e continuò per la sua strada lasciandomi solo con la mia infanzia inadeguata alla sua femminilità. Rimasero solo i tempi lunghi della vita vista dalla finestra, con mia nonna avvolta nei suoi panni neri, raggomitolata in se stessa e diffidente del vivere.

Il mondo mandava rumori e odori e lo vedevo come una sfera ribollente di magma, di gente brulicante che correva verso uno spazio dove stendersi e riconoscersi sentendosi vivere, e c’erano rabbie, furori, giochi, amori, speranze. Tutti comunque andavano, e io affacciato su un fiume che mai avrebbe dovuto lambirmi bevevo la vita come un liquore venefico e periglioso.

Perché noi mai, nonna? Perché mai un infarto a quella miserevole grammatica, perché non abbiamo provato mai ad andare verso quell’orizzonte dove la farina brilla nel sole come un pulviscolo dorato: nonna, dov’è Santiago?

A casa si rivolgevano alla scienza e alla magia ogni volta che il corpo dava il sintomo di una pulsione non prevista in un ordine steso come un capitolo di sintassi con le sue regole e le sue eccezioni. La vita consisteva nel tenere a bada la paura di vivere e si scavavano nicchie di protezione e di separatezza: solitudine angelica, incontaminazione e silenzio. Il medico sentenziò, alle mie primissime mute, che ero troppo “vizioso” ed ebbi la ramanzina sulla masturbazione che fa diventare ciechi: mia madre me lo mostrò stampato su un libretto intitolato Salute che teneva nel cassetto del comò: ‘ecco, leggi qui! Ma ci pensi, ci pensi’, e io invece tenevo acceso nella mente il ricordo del piacere indicibile di quando contemplando la foto di Ira Furstenberg in bikini mi strofinai sul materasso fino a sentirmi esplodere un fiotto di dolcezza che mi stringeva le tempie come una tenaglia, e la voglia di provarla ancora, ancora, ancora… Altra volta, invece, fu un vecchio magano, che sembrava un folletto, a sentenziare che per un mese non dovevo uscire oltre le otto di sera e mi diede un “breve” da portare sotto la canottiera, perché ero posseduto da spiriti maligni che entrano in azione quando i bambini sono soli e indifesi, lontano dalle gonne di mamma.

Nonna, nonna, dov’è Santiago?

Me la posi ancora, sorpreso, questa domanda di Federico Garcia Lorca, mentre sul lettino della sala operatoria ero steso e mi sentivo, dopo l’epidurale, dal tronco in giù, freddo e rigido come un cadavere. Il medico mi strappava le safene distrattamente, guardando il culo dell’infermiera e tirando madonne: in quell’impossibilità di respiro e d’imminente soffocamento, quei ricordi m’affiorarono come immagini lente d’una periferia remota e neghittosa, un frammento riemerso dopo un naufragio, e pensai a noi bambini, a me che non dovevo andare al mare per non affogare, a mio fratello turbato sempre dall’immagine di maternità-inferno disegnata col carbone. Lo vedevo tornare ogni tanto, da lontano, e aveva ormai le tempie grigie, l’aria cupa e sfiduciata, il fratello bello partito verso terre che gli parvero invincibili, che ogni tanto stemperava il rancore lancinante con vigorosi bicchieri di grappa e sonate di chitarra e per orgoglio non cercava appartenenza in un ritorno. Quante sofferenze per non aver fatto leva nel punto giusto per sollevare il mondo! Ha vagato a lungo, il fratello, e camminato sempre in salita senza incontrare mai nessuno che gli offrisse una pausa di ristoro, e non è stato bene mai in nessun luogo, sempre troppo vicino o troppo lontano dalla casa del silenzio che a lungo ci ha inghiottito tutti. E poi mia sorella, morta dello stesso male di suo marito, che aveva voluto volare e come Icaro sempre, vicino al sole, le si erano sciolte le ali che le avevano fatto di cera. Resta di lei un modesto e pomposo diploma di poveri, un cartone ricoperto di porporina con fregi e dorature e i leoni di S. Marco, omaggio a mio padre dell’Opificio di Colleganza di Venezia in occasione della nascita di lei, primogenita. C’è disegnato un mare tempestoso di un blu scuro improbabile: il nostro povero Adriatico, mare di poveri diavoli e di briganti morti di fame che si erano spinti dalla Turchia per aggredire i nostri paesi. Mare che non ha mai conosciuto i fasti di galeoni e di ciurme ebbre di vino e di scimitarre, mare senza profondità e senza misteri.

E’ il segno di un destino doloroso, suo e di noi tutti che ci siamo trovati a recitare sul teatro della vita senza mai aver fatto le prove, e spesso siamo naufragati nel mare disegnato in quel diploma, che non è mare di grandi viaggi e di grandi esplorazioni, dove non incontri il capitano Achab sul Pequod, ma solo qualche Ali Pascià che assalta le sguarnite torri di guardia, e qualche contrabbandiere di basso rango.

E’ il nostro archivio del dolore, di quel che avrebbe potuto essere e non è stato. Soprattutto, di quel che avrebbe voluto essere e non è stato, perché la vita non viene incontro a nessuno se nessuno va incontro alla vita. Perché non sappiamo nuotare, dice un vecchio fado di Amalia Rodriguez, e a poco a poco affoghiamo.

Nonna, dov’è Santiago?

Franco Trequadrini

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