giovedì 30 luglio 2009

Sì al dialetto, no al razzismo

Non so se e quanti si siano chiesti come mai la Lega Nord, dopo aver concionato per anni contro Roma ladrona e aver diffuso di recente la bella trovata di posti sugli autobus per quelli del nord e di posti per wuelli del sud, adesso abbiano avuto un'altra bella idea: test di dialetto per aspiranti insegnanti.
Preliminarmente ci si dovrebbe porre un'altra domanda: è possibile che la scuola diventi campo nel quale mettere a cultura le priprie idee, le più strampalate, e le proprie opinioni senza il riscontro di una legittimità pedagogica: come per i calcio sono tutti allwenatori, così per la scuola sono tutti riformatori illuminati. Ho già detto precedentemente, in più occasioni, che non può esistere una scuola di destra o una scuola di sinistra, ma deve esistere semplicemente LA SCUOLA, come istituzione forte che non può cambiare ogni volta che cambia la maggioranza di governo. Dopo la riforma del Novanta sulla scuola sonostate messe le mani una decina di volte, col risultato di renderla sempre peggiore.
Che questa idea di scuola venga propalata adesso da chi di essa non si è mai interessato ed ha pensato solo a frantumare l'unità nazionale, significa che col pretesto di dare valore alle tradizioni e alla lingua materna, in realtà si vuole solo sbarrare la strada ad aspiranti docenti che tradizionalmente sono stati reclutati dal Meridione perchè nel Nord affarista e capitalista nessuno investe su una professione che tutto dà tranne che la ricchezza. Già la Gelmini ebbe a dire che gli insegnanti del Sud non sono preparati (infatti, a Scampia di Napoli, al quartiere Zen di Palermo saranno chiamati gli insegnanti del Nord...), e adesso i leghisti si sono inventati "come ti erudisco il pupo" secondo gli orientamenti ideologici propri. E' un altro passo verso il separatismo sfrenato compiuto da parte di chi si sente superiore: c'è sempre uno zoccolo duro di razzismo in chi coltiva idee di superiorità della razza sia pure banalizzandole e involgarendole col "celodurismo". A dare valore alle tradizioni e alla lingua madre fu un certo Giuseppe Lombardo Radice, il quale propugno questo principio educativo non in funzione di un
apartheid ma in vista di una coscienza nazionale unificante e forte nella quale ogni italiano potesse riconoscere se stesso.
A questo disegno razzista e separatista il ministro Gelmini ha risposto "Se ne può parlare", proprio lei che è andata a comprarsi l'abilitazione alla professione forense a Reggio Calabria! Come mai l'insigne ministro non ha incluso nella recente riforma dell'Università esigenze e modalità di formazione dei docenti in funzione di questa pedagogia
bossiana? Perchè dalle tre i si è passati al dialetto? Forse perchè il felice governo di destra non è riuscito a formare i docenti e a riformare i concorsi, anzi, perchè i concorsi li ha aboliti?
Chi scrive ha sempre coltivato il dialetto, è stato allevato in un Centro Dialettologico d'Abruzzo e Molise, ha fatto parte della giuria di innumerevoli concorsi letterari dialettali, ma ha sempre coltivato l'idea di un dialetto che servisse a conoscere meglio la propria identità per rendere produttrice di fatti culturalmente significativi l'unità molteplice che è l'Italia. E a quell'idea si sente ancora legato e fedele, e non ha mai pensato a esami di dialetto per reclutare i docenti ma ad esami di italiano e di letteratura italiana, di latino (sì, il latino, dal quale proveniamo tutti), di storia etc., e ad una scuola che unisce anzichè separare.
Sono sempre fedele al dialetto, così come sono sempre contrario al razzismo.

martedì 28 luglio 2009

Tremule si fanno le lampade

Tremule si fanno le lampade

nell’ora della prima sera

quando sfumano vapori

dalla montagna verso valle

e gli ultimi tasti del pianoforte

dal cuore rovesciano residuo respiro

sulla piazze nascoste e semibuie

una liturgia si chiude senza officianti

ognuno sfuma i canti e infila l’uscita

ite missa est

e nell’ultimo lucore si confonde

l’infinito con l’indefinito.

Tremule si fanno le lampade

e nessun fumo d’incenso le adorna

passa passa piccola incerta luce

incerta e rapida come la giovinezza

e dura a morire come un amore tardivo.

Non si rassegna ad invecchiare questo cuore

e grida forte il tuo nome

distante da questo balcone

come il mar dei Sargassi con le sue vele

come un asteroide nel pulviscolo di luna

così distante da non poter essere trattenuta

dalla mia scrittura perché la scrittura

scorre e non trattiene, e tu sei da vivere

e non da scrivere. Scorre la scrittura,

come il sangue, come il passato, come il niente.

La scrittura di questa penna esausta scorre

verso un epilogo saputo ma senza aggettivi

con discordanze e anacoluti si conclude

messa quotidiana senza solennità

Angeli di polvere

- L’Aquila se n’è jita, l’Aquila bbella mè…….

L’alba del 6 aprile sorgeva dentro un velo pulviscolare che dava alle cose un’aura trasognata e remota.

I pescaresi non chiamano la loro città “Pescara bbella mè”.

I chietini non chiamano Chieti “Chieti bbella mè”.

I teramani non chiamano Teramo “Terreme bbella mè”.

Solo gli aquilani, con un senso di orgoglio e di confidenza familiare danno alla loro città questo attributo di bella, e non viene messo in discussione da nessuno, anche nei piccoli centri viciniori. A Mascioni, frazione di Campotosto, infatti, si dice, riferendosi all’Aquila come termine di paragone, “L’Aquila bella, Masciuni gentili”.

E l’Aquila bella veniva evocata in uno scenario di macerie che spaventava e sorprendeva. Alle 3,32 c’era stata la scossa di violenza inaudita, annunciatasi col solito boato fortissimo, e poi durata venti secondi come se varie forze bieche e malvage della natura stessero cooperando in uno sforzo cieco e bestiale di estirpare la case dalle fondamenta. Quando ci fu il boato tremendo vidi schizzare dal letto la mia gatta, e per alcune ore non la trovai, e io rimasi a letto inebetito e convinto, con una stolidità che non so misurare, che il più era ormai accaduto e nulla poteva ancora accadere. Nel frastuono dei crolli vedevo dal letto la strada, cercavo di alzarmi ma la scossa mi ributtava indietro, e alla fine sentii scricchiolare fortemente il soffitto, un rumore secco come di qualcuno che avesse gettato con violenza qualcosa sul pavimento, e contemporaneamente una crepa disegnò interamente il perimetro del soffitto. Rischiavo che l’appartamento del piano di sopras mi crollasse addosso. Il letto era cosparso di calcinacci e di pezzi di intonaco, i libri erano rovesciati per terra; nella parete della cucina s’era aperto un buco nel muro divisorio che consentiva il passaggio all’appartamento accanto; il frigorifero si era aperto e svuotato, per terra c’era cibo inzaccherato di polvere, di olio e di aceto e io presi la scopa e la paletta per pulire, e mi vedevo ad ogni istante più piccolo e impotente di fronte a una materia pervasiva e ubiquitaria, sovrapposta a tutto, tutto. Allora scesi in strada, e vidi i vecchietti ricoverati nell’Istituto di fronte a casa per strada, sulle sedie a rotelle, coperti alla meglio e assistiti con amore dalle suore filippine. Si lamentavano, piangevano di quel pianto sconsolato e senza fiato dei vecchi che si sentono indifesi e aggrediti dalla morte, e ti stringe il petto e lo stomaco perché a quel dolore non puoi dare consolazione, perché non si può consolare la vita che sente di star finendo.

Su piazza Duomo vidi venirmi incontro i miei studenti, in preda ad attacchi di panico, e la gente riferiva le prime notizie. E’ crollata la Prefettura, Anche il teatro. La Chiesa di S. Maria Paganica. Onna è tutta distrutta. A via XX Settembre c’è un disastro. Pare che ci sia qualche morto. E le telefonate, il tam tam delle voci sulla piazza: è crollato l’ospedale, l’hotel Duca degli Abruzzi. E l’Università? Il Rettorato è a terra. La Facoltà di Lettere? Pure. E Scienze della Formazione? E’ tutta inclinata e gonfia. Vedo un ragazzo, evidente che è uno studente, in preda a una crisi isterica, che fa sul cellulare il numero di casa sua e non riesce a parlare finchè gli amici gli prendono il telefonino e parlano loro con la mamma: lui non vuole parlare, non ce la fa e va correndo a piccoli giri intorno a se stesso tenendosi le mani sul capo.

Chiamano colleghi da lontano, segno che i media hanno già diffuso la notizia come si fa in caso di eventi eccezionali. Hanno chiamato le mie figlie, che non chiamano mai. E mio figlio. Lui è ripartito venerdì. Mi ha chiamato per dirmi che lui all’Aquila non metterà più piede. Torno a casa. Davanti a un bar, prima di chiudere, il proprietario ha lasciato un uovo di Pasqua aperto e rotto, per chi volesse il conforto di un po’ di cioccolato. Mi avvio. Incontro un autista del Rettorato: “Buongiorno professo’. Non è un buon giorno, però”. Faccio le scale tra i calcinacci e i pezzi di intonaco. Alcune studentesse del primo piano sono scappate lasciando la luce accesa e la porta spalancata. Entro a casa mia e prendo la moka per farmi un caffè, ma l’acqua non c’è, e il metano neanche. Cerco la gatta: inutilmente. Dove sarà andata a cacciarsi? Sento una stretta forte al cuore. Che fine farà questo animaletto cucciolo da solo? E che farò io senza neanche la mia gattina? Avevo fino a poco fa una presenza di vita che condivideva con me tutto, la confidenza e la complicità dolce che solo un essere non contaminato dalla parola può darti, ora non più. Mangio alcuni biscotti secchi e mi stendo sul letto, e stranamente mi addormento, sprofondo in un baratro di rifiuto e di oblio. Prima di prendere sonno penso ad Aldo Scimia: proprio ieri pomeriggio gli avevo spedito un’email con un breve giudizio sul suo libretto dedicato a Onna, Uno, e scrivevo che questo paesello era destinato ad essere sempre più solo. Stranamente, adesso Onna era assurta a risonanza mondiale, tutti ne parlavano come di simbolo del terremoto e il suo nome rimbalzava sulla rete della nostra banalità globale. Non era più sola. Ma i suoi abitanti non c’erano più. Che senso ha parlare di solitudine o meno quando rimane soltanto un nome? Case, famiglie, lavori iniziati e non portati a termine, appuntamenti annullati per sempre, incontri col silenzio nelle gallerie di un ieri diventato già altro ieri, remoto e strappato da noi….

Il telefono non mi dà pace, tutti vogliono sincerarsi che sia vivo, e io racconto sempre la stessa cosa: la scossa, il rumore, la polvere, i vecchietti……………

E il gatto non risponde.

Sento all’improvviso un bisogno irresistibile di liberare l’intestino e corro al bagno, seggo sul water e vedo il gatto che troneggia sulla lavatrice. Sono riuscito a ridere felice, a liberare un’emozione! Alla fine mi rendo conto che manca l’acqua, e il mio escremento rimane lì, insieme alle macerie chissà per quanto tempo ancora. Mi telefona Daniela e mi dice di fuggire via: “Cosa pulisci? Lì non c’è più niente da pulire, è finito tutto…..”. E poi una ridda di telefonate, ognuno mi dice di andare da lui, e mi danno anche fastidio, così come mi dà fastidio chi mi dice “di qualsiasi cosa debba aver bisogno, io sono a tua completa disposizione”. Di che cosa ho bisogno? Vorrei che tutto questo non fosse vero, vorrei casa mia in ordine come poche ore fa, vorrei non dover ricominciare tutto daccapo: un’altra città, un’altra casa, altri mobili, altri libri, altre utenze, tutte le piccole cose che servono per trascinare la quotidianità. Vorrei non dover ripartire da zero alla mia età, vorrei almeno che fosse per l’ultima volta. Infine mi telefona il padrone di casa: nel quartiere non c’è più nessuno, è spettrale, bisogna assolutamente andare via.

E va bene. Via, si va via. Prendo qualche maglione, mutande di ricambio, i biscotti secchi – non ho fame – il cellulare, il trasportino per il gatto e scendo ancora per le scale contando le crepe ad una ad una, ma non è possibile tenere il conto. Mi avvio verso la macchina: ma ci sarà ancora la macchina? In che stato sarà? Stranamente la trovo intatta. Non un solo sassolino né ombra di calcinaccio vi è caduto sopra. Qualche segreta divinità me l’ha conservata proprio per consentirmi la fuga.

Fuggire dall’Aquila.

Metto in moto e faccio il centro storico che di solito è chiuso al traffico. Non c’è anima viva, solo qualche volontario della Protezione Civile. Passo incredulo tra pezzi di balconi, ringhiere in bilico, finestre come bocche senza denti, negozi implosi (ce n’è uno che è tutto crollato dentro, e il vetro della vetrina è rimasto intatto), e un silenzio sepolcrale, che puzza di morte, un presente che è già passato senza fermarsi per un momento nella memoria. Incontro solo camionette e ruspe, come dopo un bombardamento. Raggiungo piazza Pio X al Torrione, e lì mi accorgo che non ho lo spinotto per caricare il cellulare, né i croccantini per il gatto, gli occhiali. Mi seggo E’ la prima sensazione di smarrimento dello sfollato: accorgersi che mancano le cose che si ritengono scontate, e senza quelle la vita si fa difficile. Aspetto il buio e fumo. Un signore mi dà un po’ dei bocconcini del suo cane per Bimba, un altro mi presta lo spinotto per caricare il cellulare nella sagrestia della chiesa. Ogni tanto sento che la macchina mi culla, come un moscone sulla riva del mare quando sciagatta placido.

Durante la notte noi accampati nella piazzetta scendiamo spesso per fumare e per sgranchire le gambe: ci si guarda negli occhi e non si parla. C’è una famiglia con una ragazza, la quale si è portata dietro il fidanzato, che sta su una macchina accanto a quella del padre. Quando il padre si mette a dormire lei scende e sale sulla macchina del fidanzato, e si mettono a fare l’amore. Con la sfrontatezza di quando si sente la morte vicina. Sono sicuramente i soli a trarre qualche piacere da quella nottata, che comunque trascorre rapida tra una scossa e l’altra. Mi passa vicino una signora, lo sguardo fisso nel vuoto: le chiedo “Signora, lei ha avuto molti danni?” e mi risponde “non abbiamo più niente”. Niente oltre un cappotto, un paio di ciabatte.

Al mattino metto in moto e vado alla ricerca di un bar, poiché non prendo un caffè da due giorni, e lo trovo affollatissimo. Sembra il bar di una stazione, nessuno parla di terremoto. Una signora ordina caffè, sigarette e biglietti di “gratta e vinci”, il cassiere chiede “Marlboro rosse o light?”. No. Nessuno ha ancora assorbito la botta.

Quando esco fuori, però, mi trovo a dover fare manovra tra ruspe, jeepponi della Protezione Civile, mezzi dei Vigili del Fuoco. I negozi sono tutti chiusi anzi distrutti: neanche a pensarci di comprare un sacchetto di croccantini per la gatta, dei fazzoletti. Non riconosco la strada, e mi trovo a dover chiedere (io, all’Aquila!!!), e posso abbassare il vetro del finestrino solo un po’ perché la gatta mi è salita in testa per cercare una via di fuga, e io parlo tenendola per le zampe mentre lei in piedi sulla testa mi mordicchia il collo e le orecchie facendomi male. Torno nella piazza, e lì mi raggiungono le telefonate di Daniela, la quale mi dice “Vengo a prenderti e ti porto qui. Io lì non ti ci lascio”. Cerco di oppormi, ma con scarsa convinzione, ben conoscendo la sua determinazione. Infatti verso mezzogiorno mi richiama dicendomi di indicarle un punto di incontro perché è quasi arrivata. Le indico l’Ospedale, e vado. Passo per la ormai tristemente nota via XX Settembre, dove la Casa dello Studente, costruita con la moralità truffaldina e criminale dei palazzinari, è crollata facendo cinquantotto vittime, tutti nostri ragazzi conosciuti a lezione, agli esami, che facevano la tesi con noi. C’era capitata anche Valentina Orlandi, brunetta con i capelli a caschetto, spigliata e simpatica, una delle tante che mi chiamano “prof” per farmi arrabbiare. I miei colleghi ne hanno parlato affranti, spesso con una retorica scontata, altri, specie gli amministratori, con ipocrisia, perché sapevamo tutti che quella Casa era fatta di cartone. Ora questi ragazzi che hanno commesso l’imperdonabile errore di credere a noi non ci sono più: un carro nero li riporterà per sempre nel paesetto piccolo piccolo, così piccolo che l’Aquila era parsa loro una grande città, e staranno per l’eternità a sorridere con l’ingenuità dei vent’anni nel cimiterino del paese.

Il ricordo tangibile dell’Università alla quale ho dato quaranta anni della mia vita è lasciato da loro, dai nostri angeli di polvere. Niente aule, biblioteche, libri. No. Sento che ancora mi chiamano “prof”, qualcuno mi chiede un appuntamento, qualcun altro vuole giustificare l’assenza.

Cosa stavano facendo, cos’hanno provato quando l’edificio si è accasciato, quando tutta la città è precipitata dentro un boato che è stato il suo ultimo grido e le persone sono diventate piccole piccole come se dovessero nascere una seconda volta; cos’ha pensato lo studente israeliano che aveva detto “sono fuggito dalle bombe e non voglio finire qui” e invece proprio qui è finito, proprio qui la morte che lo inseguiva da bambino lo ha raggiunto? Le grida, la ricerca affannosa dei telefonini per chiedere aiuto, la paura, il pianto, i genitori, il ragazzo o la ragazza, il grido soffocato in gola “amò…”, il paese tranquillo, lontano nella notte e illuminato dalla luna come una piccola Gerusalemme (oh, sempre bello e solenne di mestizia Cristo s’è fermato a Eboli!). Non hanno avuto neanche il decoro del vestito e delle scarpe nuove che si mettono ai morti, se ne sono andati con i blue jeans sporchi di polvere i nostri ragazzi, senza un poster, senza un cd dei loro. Se ne sono andati vestiti di polvere e di paura e sono diventati degli angeli di polvere che popolano le nostre notti insonni e i nostri trasalimenti della memoria.

E poi le tendopoli, altre case sventrate. Arrivo davanti all’ospedale: crollato. Un ospedale nuovo, inaugurato nove anni fa. Mi volgo a guardare la città alle mie spalle, e sullo sfondo del Gran Sasso la polvere nel baluginìo del sole non si è dileguata. Cumuli, cumuli, cumuli dappertutto, e sullo sfondo il Gran Sasso resta eterno e indifferente nella sua severità balcanica, avaro di vegetazione e maschio nell’orgoglio della sua solitudine.

Quanto ci vorrà per tornare a un minimo di vivibilità?

Intanto arriva Daniela e carica innanzitutto Binba sulla sua macchina, poi la borsa, e poi, sua madre al volante, si parte.

Ciao Aquila. O addio. L’Aquila, finito, finito. Il luogo dove io e Francesco Di Gregorio scrivevamo poesie sui frontespizi dei libri, in trattoria, non c’è più. Non c’è più ju Ruscittu per portare le serenate alle quatrane, non ci sono più le librerie che per me erano come teatri dove vivere per ore… Ricordo la libreria di don Antonio Ferri in via Patini (via dei Patiti, diceva lui), dove andavo a guardare e comprare libri, soprattutto quelli rari e difficili. Avevo appena scoperto l’esistenza di una disciplina denominata “Filologia romanza” che ebbi la presunzione di comprare e voler leggere un libro di Menendez Pidal! E le opere di Croce, io che avevo portato i calzoni corti fino a sei anni prima! Non capivo niente di quei libri ma li leggevo perché volevo leggerli e capirli, perché ero lì per questo e l’Aquila respirava di libri, di grandi monumenti del sapere; andavo alla Biblioteca Provinciale, dove c’era un usciere che aveva dei sontuosi mustacci spioventi e, per dire che lui era amante di lunghe camminate a piedi, diceva “ji so’ nu pederastone”, e mi sedevo al tavolo con i sette grossi volumi del De Tipaldo sulla vita e le opere di Ugo Foscolo.

Non c’è più l’Università-famiglia dove incontravo e qualche volta ho anche parlato con Vincenzo Rivera, dove hanno insegnato Maestri come Gaeta, Ghiselli, Giancotti, Virno, Ricamo, Kranic; non c’erano più i baretti con Panzunittu, Libero, Galeota…. Gli alberghetti dove per la prima volta ho visto una donna interamente nuda, l’auditorium dove ho sentito Rubinstein e Maurizio Pollini giovane (l’avvocato Carloni diceva “questo Pollini si farà, è un giovane promettente…”). Non esiste più l’approdo delle mie cadute e del mio nomadismo: le prime fughe da casa, il ritorno dalla clinica dove mi ero disintossicato dall’alcool, la separazione da mia moglie, la separazione da Agnese. Una vita vissuta correndo, con l’unico riferimento del lavoro e dell’Aquila. E l’Aquila non c’è più. Qui era venuto a studiare mio figlio e finalmente ci eravamo ricongiunti dopo che io avevo lasciato sua madre che era piccolo, e mi veniva tolto. Il dialogo faticosamente ripreso è stato spezzato, sono stati spazzati via i momenti di intimità silenziosa, quando lui si faceva piccolo per farsi fare i grattini sulla schiena. Il mio bambinone dal sorriso tenero e dolce non tornerà più in quella città dove la morte ha dato un osceno spettacolo.

Sono ora in uno spazio di luce e di quiete all’ombra della mano di Daniela, mia ultima e decisiva resurrezione. Mi specchio nel suo viso di bambina dal cuore di donna e da qui riparto. Il resto non c’è più e non potrà più esserci. Con Daniela passo attraverso le vie della gloria passata di Roma, tra ville da romanzo e alberi che danno pace ai secoli e sento che qui da ignudo sono stato vestito e da affamato sono stato nutrito e le mie ferite vengono nettate, da lei, solo da lei, e senza questo c’è solo la fine, l’attesa di morte.

Il terremoto in venti lunghi interminabili secondi mi ha portato via quaranta anni di storia della mia vita, e io ora posso parlarne come se raccontassi una favola, un doloroso c’era una volta che diventa una via crucis, un Golgota la cui ascensione forse non finirà mai e che si farà più faticosa ogni volta che tornerò in quei vicoli e in quelle piazze: ogni volta che ripenserò ai miei angeli di polvere ai quali decisi tanto tempo fa di dedicare la mia vita, e non me ne sono mai pentito.

Franco Trequadrini