martedì 24 maggio 2011

L'Argentina vista da Giuseppe Cannoni

IN ARGENTINA A PASSO DI TANGO CON LE FOTO DI GIUSEPPE CANNONI

Le immagini scorrono mentre una musica malinconica fa sorgere lontane e bollenti nostalgie di quando solcarono le onde dell’Oceano gli emigranti italiani coi piroscafi, e con essi un giorno Dino Campana che fuggiva dalla foresta pietrificata che era diventata l’Europa, incantato al bagliore magnetico delle stelle, con in cuore e nei sensi le immagini dei porti, le prostitute colossali, e pensando alla casa tetra di Toscana e ai manicomi dell’adolescenza si scioglieva in un passionale grido: per noi che piangiamo gridiamo: fede all’azzurro…

Fino a Buenos Aires: avamposto d’Europa nelle Americhe, volto sofferente della delusione del sogno americano, vissuta sulla pelle e nel sangue, e presenza inquieta nella nostra coscienza di europei rimasti legati alla nostra antichità, anche alla povertà, che ci ha difeso dall’urto arrogante e violento dell’America. Buenos Aires, grande capitale del rimpianto, accoglie coi suoi cortei di gauchos che ogni giorno s’inventano la vita, e di pensionati che sfilano in camicette a mezze maniche come i nostri pensionati che l’estate tornano al paese, e ci mozza il fiato col suo déjà vu, così carica dei nostri ieri, delle sue auto scarburate e stanche (dice così la canzone di Francesco Guccini), di quelle macchine che ormai sono la nostra preistoria, e le sue carni alla brace, la Coca Cola, i suoi caffè, le villette col cane, il cimitero con la tomba di Evita Peron, ultima signora che fece credere alLa gente che una donna del popolo poteva pur diventare la prima donna, e si spense poi come un lume acceso sul tavolo mentre le coppie si avvitano nel tango.

Nelle avenidas e nelle gallerie si dischiude tutta, l’Argentina ricca e povera allo stesso tempo; l’Argentina che avrebbe potuto essere ricchissima e invece è poverissima e agli angoli delle strade vende disegni e quadri, mentre i bambini laceri e affamati si aggirano con gli occhi sgomenti tra i turisti e i figuranti che fanno eseguire qualche passo di tango alle signore straniere; Argentina lacera con i vecchi che dormono sulle panchine e dignitosa nel suo silenzio e nell’imbarazzo di chi ha mancato una promessa ma ha un passato da difendere…

Capiamo adesso cosa voleva dire, forse, Borges: forse arriveremo a meritarci un mondo senza governi, dopo che l’incoscienza e inavvedutezza di tanti governi, da Peron a Menem l’hanno sprofondata nella palude del terzo mondo.

Argentina come l’Italia e Italia come l’Argentina: l’Argentina somiglia all’Italia o l’Italia somiglia all’Argentina? Forse è solo esteriorità, perché noi non abbiamo niente di quella dolce e significante tristezza, di quel silenzio e di quel desiderio di giocarsi la vita in un attimo; noi non sopportiamo quel gusto di cose che non s’usano più, non abbiamo una Evita da ricordare, né Borges e Bioy Casares da leggere, e non abbiamo nemmeno la religiosità laica che gli argentini hanno.

Non ci credete? Entrate nella Ventana, accolti dall’immagine di Evita sul balcone che sembra cantare Dont cry for me Argentina e fissate i volti dei ballerini: perdetevi nella loro fissità intensa: quante ne avete sentite sul tango? E’ una religione, è una filosofia di vita, è cultura…. D’accordo, ma che è una preghiera forse non l’avete sentito mai, eppure il tango “figurato” (come diciamo noi per distinguerlo dal nostro volgare schema di passi delle scuole di ballo), con le sue regole fisse, di gioco elementare del maschio e della femmina in cui l’uomo è co-protagonista, la spalla che assiste la donna mentre disegna geometrie impreviste di assoluta bellezza per significare l’irruzione dell’inconscio e dell’eros nella vita quotidiana, un dramma dell’antinomìa tra l’inquietudine e la forma, con i danzatori che nella danza si spersonalizzano come fossero astratti dalla materialità che sta loro intorno, è un esercizio ascetico, un rito di purificazione da una tristezza oltre la storia che intride il sangue e la radice dell’essere.

L’espressione persa della ballerina che si leva sul braccio del partner è di una solitudine e di una angoscia lunga e sottile che è possibile cogliere solo in certe icone sacre. E Dont cry for me Argentina diventa allora un inno di dolore, struggente e ossessivo, che si avvita a se stesso come un bolero.

Le immagini fotografiche, così, sono diventate scrittura, e questa scrittura non descrive ma racconta, e racconta per blocchi di significato, per tranches de vie, come nel Mondo di Ambrosia e Salvatore, delicata storia d’amore e di povertà felice.

E’ la povertà, l’intensità del vivere e lo stupore di essere nonostante tutto ancora al mondo il tema fondamentale di Giuseppe Cannoni, e questo tema, trattato col rigore del metodo e la costanza tenace propria dell’artista che non licenzia la sua opera se non l’ha completata, è un esempio rarissimo di scrittura fotografica, e di narrativa, che non ci era stato dato di cogliere neanche in un fotografo come Cartier Bresson, forse perché Cannoni è proprio un fotografo che a passo di tango va con la macchina fotografica levando lampi di luce e di colore, e sfumate tristezze d’ombra.

Franco Trequadrini

22 dicembre 2004

IN ARGENTINA A PASSO DI TANGO CON LE FOTO DI GIUSEPPE CANNONI

Le immagini scorrono mentre una musica malinconica fa sorgere lontane e bollenti nostalgie di quando solcarono le onde dell’Oceano gli emigranti italiani coi piroscafi, e con essi un giorno Dino Campana che fuggiva dalla foresta pietrificata che era diventata l’Europa, incantato al bagliore magnetico delle stelle, con in cuore e nei sensi le immagini dei porti, le prostitute colossali, e pensando alla casa tetra di Toscana e ai manicomi dell’adolescenza si scioglieva in un passionale grido: per noi che piangiamo gridiamo: fede all’azzurro…

Fino a Buenos Aires: avamposto d’Europa nelle Americhe, volto sofferente della delusione del sogno americano, vissuta sulla pelle e nel sangue, e presenza inquieta nella nostra coscienza di europei rimasti legati alla nostra antichità, anche alla povertà, che ci ha difeso dall’urto arrogante e violento dell’America. Buenos Aires, grande capitale del rimpianto, accoglie coi suoi cortei di gauchos che ogni giorno s’inventano la vita, e di pensionati che sfilano in camicette a mezze maniche come i nostri pensionati che l’estate tornano al paese, e ci mozza il fiato col suo déjà vu, così carica dei nostri ieri, delle sue auto scarburate e stanche (dice così la canzone di Francesco Guccini), di quelle macchine che ormai sono la nostra preistoria, e le sue carni alla brace, la Coca Cola, i suoi caffè, le villette col cane, il cimitero con la tomba di Evita Peron, ultima signora che fece credere alLa gente che una donna del popolo poteva pur diventare la prima donna, e si spense poi come un lume acceso sul tavolo mentre le coppie si avvitano nel tango.

Nelle avenidas e nelle gallerie si dischiude tutta, l’Argentina ricca e povera allo stesso tempo; l’Argentina che avrebbe potuto essere ricchissima e invece è poverissima e agli angoli delle strade vende disegni e quadri, mentre i bambini laceri e affamati si aggirano con gli occhi sgomenti tra i turisti e i figuranti che fanno eseguire qualche passo di tango alle signore straniere; Argentina lacera con i vecchi che dormono sulle panchine e dignitosa nel suo silenzio e nell’imbarazzo di chi ha mancato una promessa ma ha un passato da difendere…

Capiamo adesso cosa voleva dire, forse, Borges: forse arriveremo a meritarci un mondo senza governi, dopo che l’incoscienza e inavvedutezza di tanti governi, da Peron a Menem l’hanno sprofondata nella palude del terzo mondo.

Argentina come l’Italia e Italia come l’Argentina: l’Argentina somiglia all’Italia o l’Italia somiglia all’Argentina? Forse è solo esteriorità, perché noi non abbiamo niente di quella dolce e significante tristezza, di quel silenzio e di quel desiderio di giocarsi la vita in un attimo; noi non sopportiamo quel gusto di cose che non s’usano più, non abbiamo una Evita da ricordare, né Borges e Bioy Casares da leggere, e non abbiamo nemmeno la religiosità laica che gli argentini hanno.

Non ci credete? Entrate nella Ventana, accolti dall’immagine di Evita sul balcone che sembra cantare Dont cry for me Argentina e fissate i volti dei ballerini: perdetevi nella loro fissità intensa: quante ne avete sentite sul tango? E’ una religione, è una filosofia di vita, è cultura…. D’accordo, ma che è una preghiera forse non l’avete sentito mai, eppure il tango “figurato” (come diciamo noi per distinguerlo dal nostro volgare schema di passi delle scuole di ballo), con le sue regole fisse, di gioco elementare del maschio e della femmina in cui l’uomo è co-protagonista, la spalla che assiste la donna mentre disegna geometrie impreviste di assoluta bellezza per significare l’irruzione dell’inconscio e dell’eros nella vita quotidiana, un dramma dell’antinomìa tra l’inquietudine e la forma, con i danzatori che nella danza si spersonalizzano come fossero astratti dalla materialità che sta loro intorno, è un esercizio ascetico, un rito di purificazione da una tristezza oltre la storia che intride il sangue e la radice dell’essere.

L’espressione persa della ballerina che si leva sul braccio del partner è di una solitudine e di una angoscia lunga e sottile che è possibile cogliere solo in certe icone sacre. E Dont cry for me Argentina diventa allora un inno di dolore, struggente e ossessivo, che si avvita a se stesso come un bolero.

Le immagini fotografiche, così, sono diventate scrittura, e questa scrittura non descrive ma racconta, e racconta per blocchi di significato, per tranches de vie, come nel Mondo di Ambrosia e Salvatore, delicata storia d’amore e di povertà felice.

E’ la povertà, l’intensità del vivere e lo stupore di essere nonostante tutto ancora al mondo il tema fondamentale di Giuseppe Cannoni, e questo tema, trattato col rigore del metodo e la costanza tenace propria dell’artista che non licenzia la sua opera se non l’ha completata, è un esempio rarissimo di scrittura fotografica, e di narrativa, che non ci era stato dato di cogliere neanche in un fotografo come Cartier Bresson, forse perché Cannoni è proprio un fotografo che a passo di tango va con la macchina fotografica levando lampi di luce e di colore, e sfumate tristezze d’ombra.

Franco Trequadrini

22 dicembre 2004

IN ARGENTINA A PASSO DI TANGO CON LE FOTO DI GIUSEPPE CANNONI

Le immagini scorrono mentre una musica malinconica fa sorgere lontane e bollenti nostalgie di quando solcarono le onde dell’Oceano gli emigranti italiani coi piroscafi, e con essi un giorno Dino Campana che fuggiva dalla foresta pietrificata che era diventata l’Europa, incantato al bagliore magnetico delle stelle, con in cuore e nei sensi le immagini dei porti, le prostitute colossali, e pensando alla casa tetra di Toscana e ai manicomi dell’adolescenza si scioglieva in un passionale grido: per noi che piangiamo gridiamo: fede all’azzurro…

Fino a Buenos Aires: avamposto d’Europa nelle Americhe, volto sofferente della delusione del sogno americano, vissuta sulla pelle e nel sangue, e presenza inquieta nella nostra coscienza di europei rimasti legati alla nostra antichità, anche alla povertà, che ci ha difeso dall’urto arrogante e violento dell’America. Buenos Aires, grande capitale del rimpianto, accoglie coi suoi cortei di gauchos che ogni giorno s’inventano la vita, e di pensionati che sfilano in camicette a mezze maniche come i nostri pensionati che l’estate tornano al paese, e ci mozza il fiato col suo déjà vu, così carica dei nostri ieri, delle sue auto scarburate e stanche (dice così la canzone di Francesco Guccini), di quelle macchine che ormai sono la nostra preistoria, e le sue carni alla brace, la Coca Cola, i suoi caffè, le villette col cane, il cimitero con la tomba di Evita Peron, ultima signora che fece credere alLa gente che una donna del popolo poteva pur diventare la prima donna, e si spense poi come un lume acceso sul tavolo mentre le coppie si avvitano nel tango.

Nelle avenidas e nelle gallerie si dischiude tutta, l’Argentina ricca e povera allo stesso tempo; l’Argentina che avrebbe potuto essere ricchissima e invece è poverissima e agli angoli delle strade vende disegni e quadri, mentre i bambini laceri e affamati si aggirano con gli occhi sgomenti tra i turisti e i figuranti che fanno eseguire qualche passo di tango alle signore straniere; Argentina lacera con i vecchi che dormono sulle panchine e dignitosa nel suo silenzio e nell’imbarazzo di chi ha mancato una promessa ma ha un passato da difendere…

Capiamo adesso cosa voleva dire, forse, Borges: forse arriveremo a meritarci un mondo senza governi, dopo che l’incoscienza e inavvedutezza di tanti governi, da Peron a Menem l’hanno sprofondata nella palude del terzo mondo.

Argentina come l’Italia e Italia come l’Argentina: l’Argentina somiglia all’Italia o l’Italia somiglia all’Argentina? Forse è solo esteriorità, perché noi non abbiamo niente di quella dolce e significante tristezza, di quel silenzio e di quel desiderio di giocarsi la vita in un attimo; noi non sopportiamo quel gusto di cose che non s’usano più, non abbiamo una Evita da ricordare, né Borges e Bioy Casares da leggere, e non abbiamo nemmeno la religiosità laica che gli argentini hanno.

Non ci credete? Entrate nella Ventana, accolti dall’immagine di Evita sul balcone che sembra cantare Dont cry for me Argentina e fissate i volti dei ballerini: perdetevi nella loro fissità intensa: quante ne avete sentite sul tango? E’ una religione, è una filosofia di vita, è cultura…. D’accordo, ma che è una preghiera forse non l’avete sentito mai, eppure il tango “figurato” (come diciamo noi per distinguerlo dal nostro volgare schema di passi delle scuole di ballo), con le sue regole fisse, di gioco elementare del maschio e della femmina in cui l’uomo è co-protagonista, la spalla che assiste la donna mentre disegna geometrie impreviste di assoluta bellezza per significare l’irruzione dell’inconscio e dell’eros nella vita quotidiana, un dramma dell’antinomìa tra l’inquietudine e la forma, con i danzatori che nella danza si spersonalizzano come fossero astratti dalla materialità che sta loro intorno, è un esercizio ascetico, un rito di purificazione da una tristezza oltre la storia che intride il sangue e la radice dell’essere.

L’espressione persa della ballerina che si leva sul braccio del partner è di una solitudine e di una angoscia lunga e sottile che è possibile cogliere solo in certe icone sacre. E Dont cry for me Argentina diventa allora un inno di dolore, struggente e ossessivo, che si avvita a se stesso come un bolero.

Le immagini fotografiche, così, sono diventate scrittura, e questa scrittura non descrive ma racconta, e racconta per blocchi di significato, per tranches de vie, come nel Mondo di Ambrosia e Salvatore, delicata storia d’amore e di povertà felice.

E’ la povertà, l’intensità del vivere e lo stupore di essere nonostante tutto ancora al mondo il tema fondamentale di Giuseppe Cannoni, e questo tema, trattato col rigore del metodo e la costanza tenace propria dell’artista che non licenzia la sua opera se non l’ha completata, è un esempio rarissimo di scrittura fotografica, e di narrativa, che non ci era stato dato di cogliere neanche in un fotografo come Cartier Bresson, forse perché Cannoni è proprio un fotografo che a passo di tango va con la macchina fotografica levando lampi di luce e di colore, e sfumate tristezze d’ombra.

Franco Trequadrini

22 dicembre 2004

martedì 5 aprile 2011

Anniversario

Sono sul bordo del letto

come due anni fa

dentro il mio stomaco

la rabbia dell'urto e la velocità della faglia

e il crollo lavico della Città che fu.

Perché son passati questi due anni

che son passati a fare

siamo sulla cima di un albero a Fukushima

e non ne scendiamo e dondoliamo

come su un cavallo a dondolo

mentre i cardinali ballano canzoni di Jimi Hendrix

i sindaci arrivano alla testa delle fanfare.

E' stato questo lo sciroppo per due anni

nelle casette map i bambini hanno imparato tutto su Ruby Rubacuori

tutto è caduto nella monnezza delle loro infanzie.

Gli aquilani sono stanchi di misteri dolorosi

recitati nei giubbotti e nelle scarpe da tennis

stanchi di kilometri per comprare lo pà e la frutta

e la carne pe' ju sucu, aji'aquilani s'è rescallatu iu pisciu

e non si sa come esploderanno.

Domani però saremo lì, precisi co giacca e cravatta

per rispetto perché non ci devono toccare proprio quelli:

i morti sono luce per le nostre menti,

occhi per la nostra oscurità,

tenaglia per i nostri cuori.

W L'Aquila bella mé!!!


venerdì 1 aprile 2011

La vita vista da lontano 2

Sulla sponda del lago si sfioccano fazzoletti di nebbia e le case di Rocca di Papa rovesciate nell’acqua stanno come un presepe capovolto, e io col fumo del sigaro mi proietto verso di esse, nei misteri grandi e piccoli che vi sono racchiusi.

Penso alla guerra-non guerra, agli aerei che si levano in volo ma non sparano un colpo, alle parole pietose nei confronti di dittatori sanguinari, all’Italia che dice di essersi desta ma non è mai stata come adesso imbambolata in un sonno pesante come quello della sbronza. Penso ai soldi che si spendono per questo, ai giovani disperati nella ricerca di un lavoro, alla povertà che dilaga nell’assoluta indifferenza di chi governa, e a un governo di maneggioni, di cricche e di puttane. Come faremo noi che abbiamo insegnato alle nostre figlie che quello del meretricio non è un bel mestiere? Per di più, non abbiamo neanche insegnato ai nostri figli maschi che se fossero stati froci avrebbero avuto più diritti da accampare! Non ho capito niente della vita, neanche che – come dice un mio illustre Collega – la dittatura della merda dura, almeno in Italia. All’estero ciò che si basa sul vuoto non dura, ma in Italia dura e come. Cominciò con l’immagine di un bambino paffutello, come quello della rèclame del talco Roberts, sulle fiancate dei bus che diceva “Fozza Itajia” e siamo qui, a celebrare i fasti di Ruby Rubacuori. Bei tempi devono essere stati quelli di Messalina!

Il gatto Frescobaldo mi dice che noi sappiamo solo lamentarci dopo aver fatto le più grosse fesserie: mi guarda col muso appuntito e mi dice “Noi B. non lo abbiamo votato”. Beccati questa. Pure i gatti, mò. Quando mi portano la scheda elettorale glie la metto nella lettiera, e dove cade lo stronzo lì voto. Saprà votare meglio di me? Non c’è dubbio. Comincia pure a sfottermi e a darmi lezioni di vita, questo peloso filosofo e sfaticato che quando c’è il telegiornale si gira di culo. Fortuna che adesso c’è la sua coda e quella di Bimba a indicarmi la direzione nella vita, e c’è da dire che non hanno mai sbagliato.

Che brutta cosa vedersi invecchiare e sentirsi ormai provvisorio, sentire il nuovo mondo che avanza e che non è per te. Tutto quello che adesso si sta preparando non è per te. Pensavo che forse è ora di cambiare la macchina. Sto guardando le macchine nuove e credo che forse non le so guidare. Innanzitutto sono esteticamente orribili, tutte uguali, specie le medio-piccole che, con la versione cosiddetta “kinetic” si somigliano tutte, le riconosci solo

per il marchio di fabbrica. Poi, ti guardano come un marziano se chiedi il cambio tradizionale e non quello automatico. Io mi abituai con la Cinquecento, non sincronizzata, a fare la doppietta, ed era una goduria rilanciare il motore in una curva terza-seconda. Senza usare il cambio mi addormenterei al volante. E le componenti, i comandi, l’elettronica che se rimani in panne devi chiamare non il meccanico ma l’impiegato della Concessionaria che col computer resetta la macchina. E il legame sempre più stretto col telefonino: col cellulare puoi aprire, chiudere, mettere in funzione il satellitare e un’infinità di altre cose. Pensa che hanno perfino inventato una card con la quale puoi trasmettere il numero di targa all’albergo, prenotare, mettere in moto la macchina, aprire la porta della stanza d’albergo, prenotare servizi e saldare il conto. Io non sono diventato – per fortuna – un homunculus con gli arti rattrappiti e la testa enorme; di enorme ho solo la pancia, gli arti normali anche se le gambe sono dolenti per l’artrosi e mi piace mettere in moto, lanciare il motore e scalare le marce, bestemmiare, fare le corna…..

Dove mi oriento in questo mondo così? Ridiventerò pedone per forza?

Mah, forse non è una disgrazia. Andiamo a dormire, ch’è tardi, Frescobà!

Ma lui fa “mauuu” perché vuole uscire: vuol dire che lui è un gatto per bene e la notte gli piace andare a guardare la luna e a caccia di sorci.

martedì 21 dicembre 2010

"NINNA-NANNE"


"NINNA-NANNE"

di Cesare De Titta


Fa scì la lune e ‘ffa cuprì lu sole,

famm’addurmì, Madonne, stu fijole:

falle mette ‘nghe ‘llangele ‘ngammine

pe’ ‘lluorte de lu ciele e li ciardine.

Bella Madonne, po’ gna l’aresvije,

fajje ride dù stelle tra li cije.

Nu vèle d’ore se spanne,

è tutte fiure lu monne....

Ninna-nanne!

Pace e sonne!

"LA CAMPAGNOLE!"

"LA CAMPAGNOLE!"

(Versi di Luigi Dommarco, Musica di Guido Albanese)

Bella che vivi ‘m mèzz’ a la campagne,

senza malizie e senza pretinzione,

stu core ti vulesse pe cumpagne,

stu cor’amante di simplicità.

O campagnole,

ti vuojje bbene

ca mi ‘spiri simpatije:

i’ pe tte vuojje scurdè

l’amice, li pariente e la città.

Bella che canti e rridi ‘m bacc-i-a ssole

e che soltante l’aria t’à vascète,

nghe lu pinziere a tte i’ siempre vole

e siempr’ accant’ a tte vulesse stà.

O campagnole,

ti vuojje bbene

ca mi ‘spiri simpatije:

i’ pe tte vuojje scurdè

l’amice, li pariente e la città.

O bella che pazzijj nghe le rose

e de le rose puorti lu prufume,

tu sciè lu fiore vive cchiù ‘ddurose

che nen chinosce ancore ufanità.

O campagnole,

ti vuojje bbene

ca mi ‘spiri simpatije:

i’ pe tte vuojje scurdè

l’amice, li pariente e la città.

lunedì 20 dicembre 2010

La vita vista da lontano.

Come ben sanno i quattro amici che mi conoscono io vivo dal 7 aprile 2009 sulle rive del lago di Castel Gandolfo, nascosto paesino sul Lago di Albano e rinomata plaga di olmi e di castagni mèta delle vacanze estive dei Papi. In questo esilio dorato nel quale vivo in una condizione di sospensione e di Aspettando Godot si ha l’impressione che il mondo e le sue voci siano sommersi sotto la sua superficie acquorea, dove sicuramente c’è vita – papi assatanati di sesso e suorine che spengevano gli ardori con il laudano e con la melassa, mariti cornuti e vendicatori, barcaroli ubriachi e qualche ragazzo imprudente, ma noi vediamo soltanto uno specchio d’acqua sul quale scivolano indifferenti le omelie. L’impressione che si ha del mondo è quella di lontananza, di tempo lungo che senza patèmi fa dire “ma che cce frega>” come ai tempi della Roma papalina, senza che a nessuno Cesare Pascarella faccia sorgere il dubbio che “se stamo ne ‘a trattoria, stamo puro ne ‘a storia”.

Dialogando con i gatti uno di essi mi ha fatto ragionare su due cose.

1. Il caso Monicelli. Ma vi pare che se uno dopo essere vissuto per 95 anni come ha sempre voluto e deciso lui, scoprendo di avere un cancro che lo condannerà a una sicura e inutile sofferenza prima di morire non è libero di anticipare la data e dovrebbe chiedere il permesso alle associazioni di Casini, a Bagnasco e a Bertone senza che i portavoce da Capezzone a Buonaiuti e a Quaglieriello rimediassero uno straccio di intervistina per ribadire che hanno tanta voglia di governare l’Italia che per farlo non si metterebbero mai contro il papa e i Cardinali. D’altronde perchè gi fanno aprire un’Università ogni quindici giorni con i soldi destinati all’università pubblica e all’Università dell’Aquila? I Prolife, che già volevano andare da Saviano come se un intellettuale che fa una trasmissione non avesse anche il diritto di fare scelte di campo e di essere parziale, se volete, ma senza un libro che lo paga o qualcuno che gli passa le veline. Visto che oltretutto una condanna de l’è già beccata da un tribunale che finora non ha fatto sconti a nessuno.

La verità è che i Prolife, che non raccolgono su di sé molta attenzione, volevano approfittare della straordinaria audience che hanno avuto Saviano e Fazio. Insomma volevano farsi vedere, come le ragazze di Avetrana, dimenticando che loro non sono parrucchiere e qualcosa avrebbero dovuto pur dirci sul perchè a Welby fu negato il funerale religioso e i preti invece tengono seppellito in chiesa il corpo del Capo della Banda della Magliana De Pedis.

Ma sotto questa superficie c’è un quesito che viene da porsi. Perché chi crede di essere giunto a un punto di non ritorno non è libero di scegliere di porre fine alle sofferenze e al senso di inutilità che esse producono; e dev’esserci chi nonostante tutto deve bere l’amaro calice del dolore usque ad fundum in assenza totale di pietas e di residuo di ragionevolezza?

In sostanza l’ideologia si esprime in logiche retrive secondo le quali uomini come Croce, Habermas, Heidegger non sarebbero mai esistiti. Viene negato il libero arbitrio, viene imposto l’obbligo di vivere per avere un pubblico al quale regalare una dentiera e credano negli spot televisivi di chi avrebbe ben altro da pensare. Questi colpi d’ala del mondo laico fanno tanto tanto bene, poi, ai preti i quali hanno bisogno di sentirsi vittime perseguitate e desiderose di sacrificare a Gesù Cristo un po’ di sangue che non è del loro. Lo fa bene il Segretario di Stato Bertone, definito da Assanges un mediocre vescovo di campagna che non parla l’inglese e non sa usare un i - Pad: quel che ci vuole per reincarnare un moderno don Peppone e, talvolta, il don Camillo a casa di don Rodrigo.

State assistendo a dei film di Monicelli a tarda notte (perché prima c’è Bruno Vespa)? No. Perché non è morto secondo i canoni di Santa Romana Chiesa.

I miei gatti, che la vita non la vedono da lontano, sono incazzati.

E poi Saviano. Rende un pessimo servigio all’Italia dicendo all’estero che la mafia esiste mentre non è vero, è un’invenzione dei comunisti, alcuni dei quali hanno perso il fratello ucciso con la calce viva, come il professore ed ex ministro Tullio De Mauro. Saviano dice cose che tutti sanno – già, e allora perché lo vogliono morto? -; Saviano è venduto alla Sinistra, è un impostore, un imbroglione, uno che non porta mai la cravatta e presto, vedrai, diranno pure che tira di canna ed è frocio. Meglio bel maskione come Berluska insieme a Bossi che “ce l’ho dduro” (il sigaro, forse). Tutti, però, son voluti andare in trasmissione a leggere l’elenco, Maroni avrebbe quasi dato il Ministero per andare a legittimarsi in una trasmissione che fa molto ma molto più ascolto e share delle altre trasmissioni, comprese quelle di Mediaset e di Bruno Vespa. Vanitas vanitatum? Forse anche, ma bisognava accorrere a spegnere quel pericoloso spruzzo anti-omologante che aveva l’ardire di voler pensare e di voler far pensare.

Il gatto nero Frescobaldo, a questo punto, è incazzatissimo ed è voluto uscire nella terrazza sul lago.

Per rabbonirlo ho dovuto dirgli che in fondo è andata bene perché è stato rispettato il sacrosanto diritto di incazzarsi e di indignarsi, e quello di gridare la propria appartenenza a una parte. Perché Saviano, Fazio, Santoro, Floris non possono essere di sinistra mentre Bruno Vespa, da sempre impiegato nelle redazioni di chi comanda, può essere governativo e fascista? Qui in Italia c’è stata sempre – facile profeta Flaiano – la solidarietà col vincitore sorretta dalla convinzione che chi sta su ha ragione, ed è stata sempre una convinzione diffusa. Al liceo Classico dell’Aquila c’era una professoressa di Scienze dal Preside ritenuta “la migliore professoressa di Scienze d’Abruzzo” (e sti c…) la quale mandava avanti i figli dei professionisti che dovevano progettare gli aeroplani e stoppava i figli dei poveracci che sarebbero andati a insegnare scienze naturali come lei: se le quattro cose che insegni non ti danno potere che le insegni a fare?

Oggi monta una protesta di giovani disperati, che dopo aver preso la laurea a lavorare nei call centers non ci vogliono andare, di ricercatori che non vogliono fare come quella professoressa di scienze, e si sono stufati della melassa televisiva granfratellista, e che in un certo senso ci stano dicendo “datevi una mossa”, e invece di capire quel che c’è di buono in questa protesta si ammannisce loro la moraluccia dei delinquenti che demoliscono le istituzioni repubblicane gente come se ce l’avessero messo loro dentro le istituzioni gente che ha per cognome Mussolini,il Trota, la Polidori (alla quale Maroni,noncurante che la Polizia non ha la benzina per fare i servizi di givilanza)ha dato la scorta, Scilipoti.

Avevo fatto tanto per calmarlo ma quando ha sentito che il Trota guadagna 10.000 euro al mese Frescobaldo s’è incazzato un’altra volta e ha detto pure che siamo una manica di stronzi.

Il resto alla prossima puntata. Per ora, un attimo di silenzio in memoria di Padoa Schioppa, quello dei bamboccioni.