giovedì 8 ottobre 2009

Edda entrò...

Edda entrò nella cameretta disadorna e nuda dell’ultimo piano dell’Hotel Sole, che chiamavano mansarda ma in realtà era il sottotetto, dov’erano camere senza servizi a basso prezzo, e rimase col cappotto perché faceva un freddo glaciale, di quelli tipici dell’antica città abruzzese di montagna che ormai aveva adottato. Aveva un cappotto di vecchio disegno ma dignitoso ed elegante, e una bella sciarpa di alpaca. Mai si sarebbe messa al collo una pelliccia di volpe, né avrebbe indossato una pelliccia se pure avesse avuto la possibilità di comprarne una, e soprattutto non in quella città, alla quale amava contrapporsi per le abitudini codine e provinciali, dove le signore andavano al mercato col cappellino con la veletta. Aveva oltretutto, rispetto a quelle signore, un aspetto più fiero e di sfida alla vecchiaia. Dal portamento dritto e dagli occhi chiari e grandi, dal punto-vita ancora ben visibile e dalle gambe lunghe, si vedeva che era stata una donna bellissima abituata ad avere con gli uomini un rapporto di grande confidenza ma dominante. La sua persona aveva ancora una sensibilità nobile pur se non trasmetteva segnali di sessualità: una donna vitale che non si era accomodata nei ruoli di suocera e di nonna o, peggio, nei riti insulsi e sempre eguali della provincia come la messa, il bridge e la Croce Rossa.

Veniva quando poteva cioè quando era riuscita a mettere da parte i soldi per pagarsi il viaggio, l’albergo, i pasti in trattoria e i fiori per il cimitero, e per lei non era facile perché i lavoratori dello spettacolo dovevano lavorare almeno novanta giorni consecutivi per avere diritto all’assistenza sanitaria e ad altre forme di assistenza e di previdenza. Anche se aveva avuto un esordio promettente nelle compagnie di Ermete Zacconi e di Ruggero Ruggeri ma aveva preferito rinunciare alla carriera per restare al fianco e all’ombra del suo uomo, scrittore e giornalista di successo, non era facile per lei ottenere una scrittura: una comparsata ogni tanto, la moda degli sceneggiati televisivi le dava pure una mano, ma anche per quello c’era da sgomitare e bisognava avere conoscenze: una folla di ex-famosi, angeli caduti, ed ex-promettenti facevano ressa per vincere la fame, per non parlare poi delle giovani arrembanti che sognavano di sostare qualche attimo sotto i riflettori del set.

Lei poteva solo fare la caratterista, per di più in ruolo di secondissimo piano. Ne era contenta, comunque, perché avrebbe accettato qualunque cosa pur di potersi dedicare a riordinare le carte lasciate da Gaspare, i suoi articoli, i pezzi inediti, comporli in volumi secondo le volontà di lui, e contattare critici, editori per proporre pubblicazioni, recensioni, e poi venire quando poteva all’Aquila per posare fiori sulla sua tomba. Gaspare aveva lasciato il mondo ma non la vita, la sua vita, e questa era dedicata interamente e totalmente a lui.

Quella sera si accostò alla finestra, poi si sedette e si mise a guardare con fissità il cimitero illuminato (si faceva riservare sempre la stessa camera, dalla quale si poteva vedere il cimitero): era una sera speciale, quella del decimo anniversario. Estrasse dal portafoglio una ciocca di capelli, i capelli di Gaspare, e cominciò a carezzarli delicatamente con i polpastrelli, piangendo silenziosa. Lacrime sottili le sgorgavano dagli occhi e le finivano in bocca e lei inghiottiva quel sale che ormai era l’unico sapore rimasto del suo grande amore. Un sapore rapido e intenso che aveva una sorgiva lontana e sciorinava ogni volta una lunga teoria di ore, giorni e anni agglutinati in un senso unico e perduto, posseduto e ora nascosto a lei che per esso viveva. Quando questa percezione di perdita si faceva più acuta il pianto diventava dirotto e avrebbe voluto gridare e non lo faceva solo perché sapeva che lui mai avrebbe potuto rispondere al suo Zippo.

Erano gli ultimi giorni di dicembre di undici anni prima, quando in ospedale gli chiese, per convincerlo che poteva ancora usare la mano per scrivere, di scrivere su un foglio “cane”, e lui scrisse “gane”.

‘Lo vedi che sei un abruzzese? Sei sempre stato impastato d’Abruzzo, ju Grancasse e ju lupe, e lì, del resto, hai cominciato a scrivere’.

Si riferiva agli anni giovanili di Gaspare, quando fuori della sua cameretta aveva attaccato un’etichetta con scritto “Giornalista”, perché da piccolo si era invaghito delle tavole di Beltrame della Domenica del Corriere e ancora di più dei giornalini di avventure e scoperte che circolavano nelle case dei ragazzini della borghesia. Gaspare aveva cominciato presto a navigare nel mare dei Sargassi e a traversare i grandi fiumi d’Africa, protagonisti dei racconti di suo padre. Fu preso presto dal fascino della lontananza e non gli bastò sapere che sui grandi vulcani messicani si compivano sacrifici umani o che a New York gli Italiani avevano creato la Little Italy, voleva vedere queste cose e raccontarle agli altri. A che serve vedere e provare se non si partecipa agli altri? Era finito il tempo dello scrittore rinchiuso nella solitudine del suo scrittorio, ora si spalancava un mondo più grande con strade che lo scrittore doveva percorrere, perciò doveva uscire, scommettere, misurarsi con la realtà e raccontare poi com’è andata e come potrebbe andare. In una parola, testimoniare.

Diventò questo il suo assillo. Testimoniare, essere testimone del suo tempo.

Così fece le valigie per Roma, e ci mise dentro, senza saperlo, i giochi con una scrittrice concittadina destinata a grandi successi, l’uzzo dei primi amori liceali e dei flirt consumati nelle gite domenicali sul Gran Sasso, a strapparsi baci con una ragazza dietro un masso nell’aria luminosa e cruda delle domeniche di maggio.

A Edda faceva tenerezza quel giovanotto abruzzese d’origine siciliana che a un fisico robusto e temprato univa il fascino di un profilo arabo del volto, con occhi azzurri e liquidi che fissavano sempre l’immensità di un deserto o di un oceano, perché di quel gigante aveva conosciuto tutte le fragilità, gli preparava cucine leggere per tenergli lo stomaco in ordine poiché gli spostamenti continui per il mondo lo mettevano a dura prova, lo asciugava quando usciva dalla doccia per baciarselo tutto e lo confortava quando era deluso da un giudizio malevolo o ingannato da uno che credeva amico, lui che dell’amicizia aveva un rispetto sacro.

Quando tenne l’ultima conferenza prima di morire, all’Hotel George V di Parigi, Gaspare le scrisse una lettera breve ma intensa e commossa, intrisa di rimpianto e di una nostalgia che si modulava su una nota tenue e sommessa ma lunga, che veniva di lontano, da un grumo di emozioni irripetibili che nella vita è dato di provare una volta sola e non è dato dalla giovinezza della quale abbiamo tutti un’idea convenzionale: ognuno ha la sua giovinezza, presto o tardi, qualcuno riesce anche ad averne una seconda ma deve sapersela propiziare e meritare, ci deve arrivare a costo di grandi errori e di grandi sofferenze, di quelle che insegnano. Gaspare aveva preso quel che aveva potuto, non aveva avuto la forza di prolungare quella eternità breve e di contrastare le relazioni che nella vita si creano e si mantengono perché diventano infrastrutture, come un ponte o un cavalcavia, o un terrazzo e non si ha la forza di modificare, abbattere…. Dunque, ‘Caro Zippo, non è più la nostra Parigi….’. Forse voleva dire che ormai, prossimo alla fine, niente era più come prima, era la fine della festa, si cominciava a sparecchiare, si mettevano via i bicchieri con i fondi di avanzo, i coriandoli e le cicche di sigarette rimanevano per terra, le finestre semiaperte più che far entrare la luce dovevano far uscire l’aria viziata. Gaspare si sentiva probabilmente così, si stava togliendo il vizio di vivere, si era alzato dal tavolo come faceva ai bei tempi a via Veneto, quando stava a vuotare bicchieri di wisky. Si era alzato, non aveva più voglia di chiederne un altro, e neanche voleva che gli venisse offerto.

Fu in quel periodo di sospensione che doveva traghettarlo oltre la vita che Edda gli fece scrivere “gane”: volle riportarlo verso un tempo e un luogo ancestrale in cui era un ragazzo che doveva ancora diventare il “ciccione viaggiatore” che avrebbe rivoltato il mappamondo come le sue tasche, perché così poteva coccolarselo, tenerlo sulle ginocchia e cantargli canzoni dolci come facevano le baie della sua terra, il Veneto, per costruire daccapo la storia di lui come fosse uscito dal suo grembo, partorito da lei. In effetti quell’uomo era passato attraverso le sue viscere e si era nutrito del suo sangue e dei suoi sudori, delle sue lacrime. Lui era il “dottore” riverito e rispettato da tutti, ufficialmente in famiglia con la moglietta piccola e sgraziata dal naso che pioveva in bocca, e girava per il mondo intero, partiva e si imbarcava su piroscafi e carrette del mare, attraversava deserti e praterie su jeep scassate, intervistava presidenti e sballate che si credevano regine hawaiane, ma al ritorno, al taxi dava l’indirizzo di Edda, che era rimasta a casa, sola, tra le ombre in compagnia del gatto, a tenere rapporti con giornali, giornalisti a chiedere servizi e contratti, a frequentare Cinecittà e la televisione per commesse di servizi speciali e documentari. A quelle porte dove bussava le aprivano, specie quelli che ricordavano l’avvenente signorina che era stata, alta, occhi azzurri e portamento regale, che si era messa in luce con Ruggero Ruggeri ed Ermete Zacconi ed era riuscita a tenere a posto tutti i marpioni che ci avevano provato. Diventava una tigre se qualcuno osava mettere in dubbio la potestà del territorio di Gaspare: Gaspare era del mondo, ma lei era tutta e solo di Gaspare perché era lei che aveva scelto e aveva deciso.

Per questo Gaspare era anche suo figlio, creatura sua. In lui si vedeva e si riconosceva, e quando nei primi giorni di gennaio Gaspare spirò lei si sentì pesare sul ventre una palla di ferro nera e cocente come un cancro e uscì di casa furente, gridando e piangendo come una guerriera ferita: alla città chiedeva che ne aveva fatto del suo uomo, in quale buio anfratto avesse osato nasconderlo per sottrarlo alla sua adorazione, indifeso e debole com’era, così come sono tutti gli uomini per le loro donne innamorate. Era morto mentre gli passava una mano tra i capelli e con l’altra solleticava il palmo canticchiando fra i singhiozzi “… in mezzo a una piazza ci sta una pecora pazza … “. Poi aveva telefonato alla figlia per dirle di avvertire sua madre, che poteva venire a fare la parte della vedova addolorata, e uscì di corsa, per serbare fino all’ultimo l’apparenza di perbenismo. Del resto, a quel punto lei poteva anche stare nell’ombra, ci andasse la vedova a prenderselo per il funerale, glie la lasciava la salma, la spoglia mortale di un uomo che nel suo cuore era stato da sempre praticamente morto, nient’altro che un marito e mai un uomo da amare. Gaspare vivo rimaneva nelle pieghe della sua carne, vita della sua vita. Se l’era creata e lo aveva partorito proprio per questo.

Arrivò l’alba ai vetri in quella cameretta squallida. Si fece portare su il caffè e chiese di qualcuno che potesse farle un’iniezione. I reumatismi e l’artrite cominciavano a lacerarla, e il cuore perdeva dei colpi. Poi telefonò al priore della Confraternita di San Biagio, perché voleva iscriversi. Aveva messo da parte una somma anche per quella bisogna: avrebbe fatto una donazione, si sarebbe iscritta e avrebbe acquistato un loculo nel cimitero cittadino, così avrebbe acquisito il diritto di essere tumulata in quella città che non amava vicino al suo uomo: a che era servito vivere se non avesse potuto condividere con lui l’eternità?

L’eternità era per lei un’idealità che non aveva nulla a che vedere col sentimento religioso chè, anzi, aveva un supremo scherno di tutto ciò che sapeva di chiesa e di preti, tanto che raccontava – chissà se era vero – di una comune amica, Letizia, fanatica e disturbata donna che aveva la carnagione bianchissima e vestiva in modo quasi monacale, che era stata l’amante del papa attuale prima che venisse eletto al soglio pontificio. Andava a casa e salmodiava sottovoce, rapita ed estatica come Teresa d’Avila e Gaspare per la noia mortale si addormentava. A lei aveva raccontato dei suoi amplessi appassionati e audaci con Sua Santità e lei più volte, diceva, era stata tentata di andare a piazza S. Pietro all’Angelus per gridare, dopo la benedizione: ‘Sì, va bè, ma Letizia dov’èeee?”‘

Amava credere, e ci credeva, che ci sono cose al mondo, come la bellezza, l’amore, l’arte, che non possono morire perché sono incompatibili col concetto stesso di morte, e che lei avrebbe condiviso l’eternità con Gaspare era cosa che nessuno poteva minimamente mettere in discussione.

Aveva scelto un posto ovviamente vicino alla tomba di Gaspare, sulla quale aveva fatto apporre una lapide con incisi i versi dell’Amleto: un grande cuore si è abbattuto, lo accolgano schiere di angeli…., ma non accanto bensì in una fila laterale poco dietro, quasi non volesse dare all’occhio neanche nel regno dei morti.

Il priore arrivo nella hall, salutò untuoso e falsamente gentile e lei non lo guardava, il suo sguardo gli passava sopra i radi capelli e andava oltre, oltre la sciarpetta composta sotto il collo del cappotto, oltre il berretto tenuto in mano senza alcuna regalità: vedeva in ogni situazione l’imponenza di Gaspare e i suoi occhi azzurri fatti per mirare lontane distanze, e il suo profilo di antico nobile arabo-siculo che le faceva correre ancora adesso un brivido lungo la schiena. Il priore cercava di far apparire difficili le cose, parlava con sussiego dell’autorità di monsignor vescovo… e lei stizzita alzò la voce e disse:

- ecco i soldi, glie li porti. Si accontenterà, come si sono sempre accontentati, i preti!!!

E uscì.

Doveva comprare i fiori per il cimitero.

Al mercato Edda girava tra le bancarelle in cerca di fiori di campo a non ne trovò, perché quei fiorellini di montagna dai colori sul viola e sull’iris p di scoppi lamellari di giallo sono scomodi da andare a prendere e anche antieconomici: quanta fatica per farne un mazzetto presentabile? Lei brontolava, apostrofava quei montanari pigri e retrogradi, ancora troppo legati alla pecora e alla zampogna, poco amanti dell’acqua e sapone. Apostrofava anche il trattore, sempre lo stesso, dal quale andava a mangiare, perché non teneva le mozzarelle nell’acqua e non portava il cane dal veterinario. C’era molto dell’abruzzese in quel suo modo di fare brusco e di osservare con severità i comportamenti degli altri, amati sì ma con prudenza e anche un po’ di diffidenza. In realtà l’addolorava molto venire all’Aquila per andare a trovare Gaspare al cimitero; ci sarebbe venuta volentieri solo con lui, per rivedere via S. Amico dove da bambino giocava con Laudomia Bonanni, la stanza dove da bambino aveva incollato sulla porta un foglio con scritto “G.G.N. – Giornalista”, i portici della CIT da dove la domenica partiva con la corriera per il Gran Sasso, o a bere il wisky con l’acqua, alla maniera degli scozzesi, al Caffè Americano. Era un mondo scomparso quasi contemporaneamente a lui, spazzato via da un nuovo che s’imponeva con arroganza e con prepotenza mutando e stravolgendo le forme e i contenuti quasi per voler distruggere anche il ricordo, come sempre fa il vecchio col nuovo. E’ sempre stato così, e Gaspare ne avrebbe preso “da cronista, atto”.

Una sera estrasse da una cartella dove teneva cartelle dattiloscritte con cura quella vecchia lettera autografa che diceva “Caro Zippo, non è più la nostra Parigi…”. Fu una delle. Era stata scritta da Parigi dove Gaspare, ormai affaticato e piegato dal male, gonfio e dallo sguardo triste, era andato per tenere una conferenza, che fu l’ultima, sull’Abruzzo, Les Abruzzes, commissionata dagli Enti provinciali per il turismo abruzzesi. Del resto, in quella conferenza parlò di un suo Abruzzo rimasto ormai remoto nel tempo, con le feste al Circolo Aternino di Pescara, il Ristorante Guerino e Spizzico, e le Panarde alle Tre Marie, che non corrispondeva all’Abruzzo attuale. Gaspare viveva dunque del suo passato, perché non gli era rimasto altro che quello, e nelle rare sortite in pubblico portava il monumento di se stesso. Che dolore, che paradossale e spietata fatalità restare fermo su se stesso per un uomo che si era arrampicato sulla crosta terrestre e aveva giocato col mappamondo come si gioca con un giocattolo, sempre pronto a giocarsi la vita in un attimo. Edda sentiva questi pensieri percorrerla lungo la schiena in forma di brivido, e mentre lavava i portafiori e sistemava le rose (rosen, doveva portare rosen a una signora, aveva detto al maggiore inglese della Black Watch per uscire dalla prigione della caserma) sentì montare il pianto, i ricordi sciogliersi e trovare finalmente la strada e si fermò; estrasse dal portamonete una ciocca di capelli di lui e se la mise alla bocca e la baciò la baciò più volte disperatamente, e sentì tutta la tenerezza per quell’omone imponente, gigante dai piedi d’argilla lo aveva definito, e le sembrò, anzi ebbe la certezza di averlo ospitato nel suo corpo per dargli un rifugio, una casa ai suoi sogni e alle sue fragilità, e le parve di averlo fatto lei Gaspare, perché dentro di lei si era generato senza paura, e onorava adesso la sua tomba con la stessa pietà che hanno le madri sulla tomba dei figli,rivivendo le ore delle veglie e delle attese come un lungo pellegrinaggio che desiderava si sciogliesse in nenia, di quelle nenie che cantano le vedove e le madri nei funerali del sud. Adesso Edda non era la leonessa pronta all’attacco e alla difesa ma la madre dolente meridionale, racchiusa nell’abito nero del lutto, monumento di silenzio che sente il battito dei millenni.

Ripulì con uno straccio umido le lettere dell’epigrafe, tratta dall’Amleto: “un grande cuore si è spezzato. Lo accompagni un coro di colombe”, e si avviò verso l’uscita. Diede la mancia al frate custode e riprese il viale verso la città. L’aria odorava di freddo, gli alberi nudi erano immagini di un tempo pietrificato senza attesa e il sapore dolciastro dell’aria di neve metteva voglia di tiepidità, di minestra calda e sapida, d fuoco acceso.

Per lei c’era ad attenderla la cameretta povera dell’abbaino dell’Hotel Sole, con la finestra che guardava verso il cimitero e una sedia malferma.

Anche quel mese aveva compiuto il suo rito d’amore.

Nei commiati che prendeva con la gente non diceva mai “ci vedremo il prossimo mese” o tra quindici giorni ma genericamente “alla prossima volta”, che non sapeva mai quale sarebbe stata. Sicuro era solo che lei avrebbe fatto di tutto perché quella volta ci fosse, perché viveva esclusivamente di quello. Tornava a Roma, nell’appartamento sempre più solo u buio di via Fontanella Borghese, dove viveva ancora un vecchio gatto bianco che un tempo aveva vissuto i suoi gagliardi e combattuti amori, come diceva Gaspare, e la sua scrivania con i souvenirs di viaggio. Tra questi spiccavano i tamburi africani che gli aborigeni usavano per comunicare e ritmare la danze orgiastiche di cui poi abbiamo letto nelle pagine di Tam Tam Mayumbe, e visto nel film che ne fu tratto e interpretato, forse più per omaggio di amicizia personale, dal grande Pedro Armendariz. Qui rispogliava quelle pagine dell’edizione Vallecchi dalla copertina che sembrava più una locandina da cinema, con le negre che danzavano lasciando generosamente vedere le cosce ed avevano labbra di rossetto acceso che non avrebbe spiccato neanche sul volto più candido di un’attrice bianca. “Romanzi, romanzi, è il sogno di tutti i giornalisti, di tutti voi scrittori falliti, disse Ellen a Bruno”, era scritto nel secondo capitolo di quel libro, e Edda se lo stringeva al petto rivendicando che tanti mediocri avevano avuto fortuna letteraria più grande di Gaspare, e che tutti avevano fatto ricorso a lui per un consiglio o per una raccomandazione, per entrare in un giornale, ottenere una recensione, e lui non aveva mai detto di no a nessuno. Pettegolezzo e storia della letteratura per lei non facevano mota differenza, per via del patto d’amore con Gaspare si sentiva legittima cittadina della repubblica delle lettere che, in effetti, era fatta anche di storie molto miserabili.

Nonna, dov'è Santiago?

Se fossi capace di raccontare una storia, e di raccontarla con un film, e se sapessi adoperare la macchina da presa, farei cominciare il racconto della mia infanzia con l’immagine di quel terrazzino interno separato dall’abitazione attigua da un muretto alzato per dividere quella che una volta era stata un’unica casa, sul quale si apriva tuttavia una porticina, che veniva tenuta chiusa a chiave, ma senza eccessivo rigore. A quel terrazzino si accedeva dalla porta finestra della cucina, che ricordo ora con le persiane chiuse, come un occhio addormentato da tempo immemore, tra la polvere, le foglie secche che nessuno spazza via, e qualche nido di rondine. Conservo questa cartolina in bianco e nero come icona di nostalgia senza fondo e morso acerbo nello stomaco, e rimpianto (non è l’età del rimorso, l’infanzia) per tutto quello che allora è rimasto inespresso con una parte infante di me che non è mai cresciuta.

Pochi ricordi, soltanto, ma forti e incisi nella memoria dei sensi e degli umori: gli insetti che mi camminavano sul palmo della mano facendomi sentire il solletico delle zampette, i giochi solitari con la palla e alcune improvvise preeccitazioni cardiache che mi facevano correre a stendermi sul letto per qualche secondo e poi passavano; e l’odore della frutta d’estate, il sapore dell’olio di ricino che mi veniva abboccato mentre mia madre mi teneva la testa e mi chiudeva il naso per costringermi ad aprire la bocca, così mia nonna poteva rovesciarmi dentro la cucchiaiata di purga. Erano i giorni di lunghe solitudini e di grevi silenzi, segnati dal passo lento di mia nonna, segreta a se stessa nel suo vestito tutto rigorosamente nero, con lo sguardo perennemente torvo e pronto al rimprovero e alla censura, e quel piccolo mondo che era casa mia attonito di paura per lo sconvolgimento che un suo improvviso rovescio nervoso poteva far accadere. Stanotte viene il diavolo e ti porta via era la sua minaccia più ricorrente, e la notte diventava il dominio della paura e dell’incerto, mondo del nero mortifero che spuntava minaccioso dagli interstizi dei muri come il muschio dalle parti umide e da ogni varco possibile. Qualche volta abbiamo chiesto, atterriti, No’, che dici, stanotte viene veramente il diavolo? e lei rispondeva compiaciuta SI.

Era stato soprattutto mio fratello a fare atterrito questa domanda, forse perché da piccolo, per svezzarlo, lei aveva costretto mia madre (costringeva sempre tutti, in ogni modo) a tingersi il petto col carbone, cos’ vedendo la mammella nera, il bambino si sarebbe spaventato e non ci si sarebbe attaccato. Così fu, infatti, e nella coscienza profonda del bambino si impresse l’immagine della maternità infernica distruttrice e spaventosa, luogo di attaccamento rimosso e di irraggiungibile sicurezza. Quel mondo angusto e piccolo si cuciva addosso alla mia pelle, impossibile da togliere, dandomi la triste consapevolezza che per me la vita non poteva essere diversa. Nonna, dov’è Santiago? chiedono i bambini in una poesia di Garcia Lorca, ma quei bambini sono in movimento, in marcia verso qualcosa che sa di paradiso in terra e di mèta attesa e voluta, mentre noi eravamo fermi su noi stessi. Ho chiesto anch’io tante volte, e in tanti modi, Nonna, dov’è Santiago? e lo chiedo ancora adesso: perché si sentono usci che si chiudono e gente che si muove e va, verso una direzione da scegliere, spinta solo da un’urgenza del cuore e cerca un’alba o un tramonto o una spiaggia mentre noi non cerchiamo niente? Perché noi mai? Perché questa paura dell’altro camuffata di disprezzo per l’altro? Perché noi qui ora e sempre, perché noi mai? Affacciato a guardare un fiume nel quale mai mi sarei dovuto bagnare, con la paura come unica bussola, vedevo mio padre ripartire, spesso prima che fossero finite le ferie, col suo passo lento e stanco e lo sguardo

di uomo incazzato, sopravvissuto alla persecuzione fascista che ora forse si chiedeva se ne fosse valsa la pena. Erano tristi quelle partenze, perché significavano una parentesi di vita diversa e altra che si chiudeva: i suoi racconti, l’odore delle sue sigarette mescolato a quello del caffè, i suoi racconti, le opere liriche ascoltate dalla radio a valvole che papà si portava con sé perché la nonna non voleva radio in casa…io vivevo i giorni immediatamente successivi con un senso fisico di lutto, di perdita irreparabile e inconsolabile, e forse era mio padre la Santiago dove allora volevo andare.

Mi consolava solo Gabriella, la bambina che abitava dall’altra parte del muro e spesso compariva dalla porticina. Occhi accesi a bullicame di frammenti di luce, Gabriella era la complicità, la bambina-giacinto che giocava con Peter Pan, e insieme mangiavamo i dolci rubati, ci nascondevamo e parlavamo fitto fitto sotto voce, per non farci sentire dai grandi. Gabriella non apparteneva, però, al mio mondo, al mio mondo non apparteneva nessuno, perché io ero una lumaca che si portava dietro una casa pesante, e neanche volevo lasciare scie perché mi richiamassero, mentre lei era festosa e cangiante come un canarino. Era mia solo per pochi momenti, e quei momenti erano per me l’attrattiva più festevole, e lei è stata forse l’unica donna amata senza il vizio dell’amore, col solo pulito trascinamento del gioco. Non l’ho dimenticata e non la dimenticherò e ogni volta che la vedo non penso mai alla bella e affascinante signora che è adesso ma alla bambina che mi dava dolci trasalimenti e mi restituiva la mia infanzia. Chissa quale ricordo è rimasto a lei di quei giorni ora che i relitti galleggianti delle nostre infanzie vanno verso una deriva remota. Registro solo che lei ebbe le sue mute e continuò per la sua strada lasciandomi solo con la mia infanzia inadeguata alla sua femminilità. Rimasero solo i tempi lunghi della vita vista dalla finestra, con mia nonna avvolta nei suoi panni neri, raggomitolata in se stessa e diffidente del vivere.

Il mondo mandava rumori e odori e lo vedevo come una sfera ribollente di magma, di gente brulicante che correva verso uno spazio dove stendersi e riconoscersi sentendosi vivere, e c’erano rabbie, furori, giochi, amori, speranze. Tutti comunque andavano, e io affacciato su un fiume che mai avrebbe dovuto lambirmi bevevo la vita come un liquore venefico e periglioso.

Perché noi mai, nonna? Perché mai un infarto a quella miserevole grammatica, perché non abbiamo provato mai ad andare verso quell’orizzonte dove la farina brilla nel sole come un pulviscolo dorato: nonna, dov’è Santiago?

A casa si rivolgevano alla scienza e alla magia ogni volta che il corpo dava il sintomo di una pulsione non prevista in un ordine steso come un capitolo di sintassi con le sue regole e le sue eccezioni. La vita consisteva nel tenere a bada la paura di vivere e si scavavano nicchie di protezione e di separatezza: solitudine angelica, incontaminazione e silenzio. Il medico sentenziò, alle mie primissime mute, che ero troppo “vizioso” ed ebbi la ramanzina sulla masturbazione che fa diventare ciechi: mia madre me lo mostrò stampato su un libretto intitolato Salute che teneva nel cassetto del comò: ‘ecco, leggi qui! Ma ci pensi, ci pensi’, e io invece tenevo acceso nella mente il ricordo del piacere indicibile di quando contemplando la foto di Ira Furstenberg in bikini mi strofinai sul materasso fino a sentirmi esplodere un fiotto di dolcezza che mi stringeva le tempie come una tenaglia, e la voglia di provarla ancora, ancora, ancora… Altra volta, invece, fu un vecchio magano, che sembrava un folletto, a sentenziare che per un mese non dovevo uscire oltre le otto di sera e mi diede un “breve” da portare sotto la canottiera, perché ero posseduto da spiriti maligni che entrano in azione quando i bambini sono soli e indifesi, lontano dalle gonne di mamma.

Nonna, nonna, dov’è Santiago?

Me la posi ancora, sorpreso, questa domanda di Federico Garcia Lorca, mentre sul lettino della sala operatoria ero steso e mi sentivo, dopo l’epidurale, dal tronco in giù, freddo e rigido come un cadavere. Il medico mi strappava le safene distrattamente, guardando il culo dell’infermiera e tirando madonne: in quell’impossibilità di respiro e d’imminente soffocamento, quei ricordi m’affiorarono come immagini lente d’una periferia remota e neghittosa, un frammento riemerso dopo un naufragio, e pensai a noi bambini, a me che non dovevo andare al mare per non affogare, a mio fratello turbato sempre dall’immagine di maternità-inferno disegnata col carbone. Lo vedevo tornare ogni tanto, da lontano, e aveva ormai le tempie grigie, l’aria cupa e sfiduciata, il fratello bello partito verso terre che gli parvero invincibili, che ogni tanto stemperava il rancore lancinante con vigorosi bicchieri di grappa e sonate di chitarra e per orgoglio non cercava appartenenza in un ritorno. Quante sofferenze per non aver fatto leva nel punto giusto per sollevare il mondo! Ha vagato a lungo, il fratello, e camminato sempre in salita senza incontrare mai nessuno che gli offrisse una pausa di ristoro, e non è stato bene mai in nessun luogo, sempre troppo vicino o troppo lontano dalla casa del silenzio che a lungo ci ha inghiottito tutti. E poi mia sorella, morta dello stesso male di suo marito, che aveva voluto volare e come Icaro sempre, vicino al sole, le si erano sciolte le ali che le avevano fatto di cera. Resta di lei un modesto e pomposo diploma di poveri, un cartone ricoperto di porporina con fregi e dorature e i leoni di S. Marco, omaggio a mio padre dell’Opificio di Colleganza di Venezia in occasione della nascita di lei, primogenita. C’è disegnato un mare tempestoso di un blu scuro improbabile: il nostro povero Adriatico, mare di poveri diavoli e di briganti morti di fame che si erano spinti dalla Turchia per aggredire i nostri paesi. Mare che non ha mai conosciuto i fasti di galeoni e di ciurme ebbre di vino e di scimitarre, mare senza profondità e senza misteri.

E’ il segno di un destino doloroso, suo e di noi tutti che ci siamo trovati a recitare sul teatro della vita senza mai aver fatto le prove, e spesso siamo naufragati nel mare disegnato in quel diploma, che non è mare di grandi viaggi e di grandi esplorazioni, dove non incontri il capitano Achab sul Pequod, ma solo qualche Ali Pascià che assalta le sguarnite torri di guardia, e qualche contrabbandiere di basso rango.

E’ il nostro archivio del dolore, di quel che avrebbe potuto essere e non è stato. Soprattutto, di quel che avrebbe voluto essere e non è stato, perché la vita non viene incontro a nessuno se nessuno va incontro alla vita. Perché non sappiamo nuotare, dice un vecchio fado di Amalia Rodriguez, e a poco a poco affoghiamo.

Nonna, dov’è Santiago?

Franco Trequadrini

Il bene della bellezza

“E più sento il bene di questa bellezza”: queste parole sono state scritte da Michelangelo ed è significativo che sia stato proprio un artista a scriverle. Michelangelo che, terminato il Mosè, gli lanciò contro il martello gridando ‘parla!!!’, ha cercato sempre di far vivere nella sua arte l’equilibrio naturale tra l’uomo e l’universo e nella plasticità delle forme è andato oltre il limite imitativo per aspirare ai vertici della bellezza che si esprime nella tensione verso i misteri più profondi dell’uomo e verso le ragioni del suo essere nel mondo. Non è, questo, un concetto legato al classico ‘bello e buono’ (kalokagathòs) nel senso di ‘ciò che è bello è buono’ ma, sorprendentemente vicino al concetto moderno di ‘ciò che è buono è bello’.

E’ a questo concetto che dobbiamo dar valore e forza per sottrarci al processo di omologazione culturale.

Non è certo sperabile che la società possa contrastare il processo di globalizzazione economica e commerciale in atto poiché essa non può ingaggiare una lotta impari, che la vedrebbe perdente, contro i grandi capitali e i poteri forti che lo determinano, ma possiamo almeno – e dobbiamo – evitare la globalizzazione delle coscienze, il pensiero unico e l’impoverimento culturale e spirituale che ci sta colpendo. L’uomo sta oggi perdendo il senso dei mezzi e dei fini, dal momento che la cancellazione dei tratti simbolici ha prodotto l’oscuramento di ogni orizzonte di senso: egli non sa di dove viene né dove deve e vuole andare, l’individualismo gregario, effetto tipico della globalizzazione, lo ha lasciato libero di fare quel che fanno gli altri e si è perciò rassegnato a vivere nei non-luoghi dove, insieme con i suoi simili, è omnia possidens, nihil habens.

Vediamo anche con la riforma della scuola, che confonde le ‘materie’ con gli strumenti, le ‘educazioni’ ovvero le istruzioni per il miglior uso del migliore dei mondi possibili, con l’educazione nella sua interezza, nel senso più alto e nobile del termine che il progetto di formare un individuo che vale soltanto come pezzo da inserire nel ciclo produttivo dà esito in quello di formare non già dei cittadini ma dei sudditi che vivono nei casermoni delle periferie e non relazionano tra loro, con bambini senza più stupore né fantasia.

Abbiamo un’infanzia senza più sogni, prodotto di una società adulta indifferente e sfiduciata perché priva di riferimenti certi, e misuriamo la profondità di questo solco di perdita e di vacuità in una distanza cronologicamente breve ma storicamente lunga, consumatasi cioè in un arco breve di tempo ma pesante di incidenze che ci sembrano inevitabili e irrimediabili: siamo di fronte, evidentemente, a un fenomeno caratteristico del secolo breve descritto da Hobsbawm. Educatori della parola come Paulo Freire e don Lorenzo Milani, dalla forte personalità e distinti da una passione e da una fede nei valori forti, hanno agito negli ultimi decenni del Novecento, eppure ci appaiono, se non inattuali, improponibili portatori di un messaggio eroico che non trova referenti nel nostro mondo.

In realtà, quel che sta all’origine di questo fenomeno di straniamento e di lontananza da un orizzonte di senso è la perdita del significato sociale della bellezza e di ciò che è bello nella misura in cui esprime valori condivisi e ci conferisce un’identità e un sentimento di appartenenza. Il diritto a ‘una bellezza che ci educa’, di cui abbiamo parlato lo scorso anno, è dato da un’entità che ci fa essere e nella quale possiamo riconoscerci, uno spazio nel quale possiamo ‘giocare’ tutti e invitare tutti a ‘giocare’ per una giubilazione dello scacco.

E’ possibile reagire, dunque, dando una significazione sociale ai nostri progetti ed estendendo lo spettro della nostra azione: non più conservazione pura e semplice del territorio ma territorio come laboratorio di esperienze possibili, nel quale incontrarsi con l’altro con la consapevolezza di quel che siamo e del nostro essere ‘noi’ e non solamente ‘io’; territorio non più come capitale della memoria ma memoria come punto di lancio verso l’avvenire: scoperta del gusto di dialogare e di provare forme nuove di dialogo, formazione di un immaginario collettivo alternativo e originale che tragga dalla cultura-patrimonio gli anticorpi contro l’invasione di forme pseudoculturali che sono estranee e artificiali.

E’ bene servirci conservare forme della nostra cultura per combinarle in un linguaggio nostro e vivere un’esperienza di libertà, educare i bambini a questo gusto di leggere il territorio come un libro aperto e di auscultarne il battito come un racconto, perché ogni ambiente ha qualcosa da raccontare.

Insomma, una ‘pedagogia del territorio’ per raccontarci, esprimerci, comunicare nei linguaggi simbolici per gettare un ponte tra noi e gli altri, che sono sempre più lontani, dall’altra parte dello schermo all’interno del quale tra uno spot pubblicitario e l’altro vediamo guerre, uccisioni e massacri come stessimo guardando una fiction o un teatrino televisivo, senza la forza di gridare il nostro sdegno e il nostro dolore. Anche poter piangere per questi orrori è ‘bellezza’: è bellezza ciò che nella nostra quotidianità ci rimanda un’immagine non deformata di noi e, soprattutto, ci fa sentire noi e non soltanto tristemente io.

L’uomo africano, come è stato osservato, nasce noi: non ormai non nasciamo più così, ma dobbiamo diventarlo, e per questo dobbiamo lavorare, e soprattutto credere.

Franco Trequadrini

L'educatore: miglior genitore possibile?

Chiedersi d’emblée se l’educatore possa essere il miglior genitore possibile sottende un altro interrogativo, se cioè l’educatore debba essere genitore, se sia lecito cioè che egli assuma un ruolo e una funzione che non dovrebbe competergli. Se la domanda viene posta - e io credo che venga posta legittimamente – evidentemente abbiamo la percezione di un disagio diffuso nello svolgimento dei ruoli tanto genitoriali quanto professionalmente educativi, e non soltanto di fronte a casi border-line o di vero e proprio burnout.

La condizione di ipercomplessità nella quale la nostra società vive segna in maniera sempre più evidente la crisi di due entità che sono al tramonto storico di una funzione e che debbono ridisegnare innanzitutto un orizzonte di senso. Sul mio versante di osservazione, che è quello pedagogico, si osserva una idealizzazione che pone l’adulto sullo stesso piano del bambino, nella relazione educativa, in modo che il bambino cresca e l’adulto a sua volta riceva dal bambino stesso un’innocenza che lo rigenera. Questo ha una valenza sentimentale e simbolica alta e nobile, ma bisogna però vedere quanto detta valenza garantisca al bambino una crescita giusta: in tal modo si rischia che i ruoli si invertano, e che la trasmissione culturale e l’alfabetizzazione culturale diventino processi deleteri e disumanizzanti. Se così è, il bambino viene a trovarsi in una sorta di prigione dorata connotata da solitudine familiare (prassi del figlio unico) e sociale (protezione, isolamento, mancanza di contatti che preludono all’amicizia, all’amore ecc.).

Su questa base ovvero sulla base di fenomeni introiettivi e proiettivi si produce quello che Loris Malaguzzi afferma ne I cento linguaggi dei bambini:

i genitori educano i loro figli come i principi governano i loro popoli e lo stesso adulto si scandalizza a pensare che l’essere umano allo stato infantile sia già persona;

Molti ricercatori voltarono e rivoltarono il bambino, riducendolo a segmenti sempre più piccoli, finoa perdere, oltre il suo senso, anche il senso di quello che stavano facendo. Altri si rimisero e resuscitare metafore ed a parlare di bambini insipienti, poveri di spirito, banali e maneggevoli, e per questo meritevoli di attenzione e di grandissima protezione. Altri ancora a mettere in risalto dei bambini non quello che sono e sanno ma quello che non sono e non sanno rispetto alle favolose saggezze dell’adulto.

Da una parte, dunque, una famiglia che iperprotegge e soffoca, dall’altra una scuola che contrappone sentimenti e affetti e spinge in maniera eccessiva in direzione cognitiva e della crescita intellettuale. Si aggiunga poi che, sia per la complessità dell’organizzazione della vita, sia per l’estensione della sicurezza protettiva, il bambino viene relegato all’interno di istituzioni totali (asilo nido, scuola d’infanzia ecc.) che contemplano appunto questo sviluppo squilibrato in direzione cognitiva.

Ma non solo: nelle istituzioni prescolastiche e di istruzione elementare gli operatori sono in gran parte di sesso femminile e, quindi, lo stereotipo paterno è assente e si ripropone il problema del “padre assente” e della “società senza padri”; lo stereotipo sessuale, inoltre, ha disorientato gli operatori per l’infanzia riproponendo vecchie concezioni separatiste (classi monosessuate). Quanto detto finora vale, dicevo in apertura, per l’infanzia in genere.

Riferendoci a un’infanzia afflitta da particolari problemi (bambini che soffrono le disfunzioni relazionali e affettive della famiglia separata o ricostituita, monogenitoriale o artificiale) l’educatore viene a svolgere una funzione particolarmente delicata perché deve fondere in uno, cioè nella sua persona, la funzione di operatore educativo e di genitore.

Se si prescinde dall’esigenza primaria di funzione di caretaker (erogatore di cure materne) nella fase di accoglienza, l’educatore può assumersi un ruolo che il genitore di oggi, forse per mancanza di fiducia nella sua competenza a trasmettere il senso della vita, non si assume, ed è quella di partner culturale del bambino.

Per fare ciò bisogna che l’operatore pensi percorsi sempre più e sempre meglio centrati sui bisogni e sui diritti del bambino e cerchi di garantire al bambino il diritto di vivere il tempo dell’infanzia, che è il suo diritto fondamentale. Credo sia la forma migliore per conciliare la funzione educativa fuori di un’ottica protocollare e auroreferenziale e quella genitoriale fuori di una logica privatistica, possessiva e antisociale.

Diritti culturali

E’ ormai superata da tempo la convinzione che i diritti biologici prevalgano su quelli culturali. Questi hanno centralità ma bisogna ricordare che quando si parla di infanzia non si parla di “fruizione della cultura” – a proposito di diritti culturali – ma di qualità della vita: è alla nozione di “qualità della vita” che si rifà l’enunciato del diritto alla ludicità: l’arte, in fondo, nasce per caso, dal gioco della creatività.

Infanzia e arte

Il diritto del bambino a fruire dell’arte sposta l’attenzione pedagogica dal momento intuitivo a quello ermeneutico. Marco Dallari, il più grande teorico della pedagogia dell’arte, dice che la didattica dell’arte, intesa come esperienza laboratoriale, intende l’opera d’arte più come pretesto che come testo. Ciò significa che viene esteso all’arte il concetto che “trasmettere il sapere è rifarlo insieme”. Attraverso questa esplicitazione didattica il bambino acquista consapevolezza della differenza tra comunicazione comune e comunicazione artistica e che, se nella comunicazione comune la funzione del ricevente è pasiva, in quella artistica è attiva [del resto, tutto ciò non è nuovo a chi ha un minimo di conoscenza di letteratura per l’infanzia e di tutta l’opera e dell’impegno di Gianni Rodari].

Affinché tale pratica didattica sia possibile e possa emergere l’orizzonte di senso, occorrerebbe che i musei per l’infanzia, molto diffusi per esempio in Spagna, fossero diffusi, ma qui in Italia lo sono assai poco.

Diritto al gioco. I musei

Demistificare la conoscenza con il gioco e manipolare i fenomeni non è attività che ha ricaduta solo sul piano estetico ma sul pieno pedagogico nella sua totalità, perché anche la scienza è strettamente legata al gioco: essa non parte dalle osservazioni ma dal gioco sempre diverso delle congetture, e le osservazioni sono, come le chiama il testo di Bobbio, “il tribunale della fantasia”.

Per questo sono da realizzare e diffondere strutture museali “mirate”, come la Cité des Enfants di Parigi e la Città dei Bambini di Genova.

Nella prima si propone di fare della scoperta delle scienze un’attività accessibile a tutti, di favorire l’accesso dei bambini alle conoscenze attraverso una pedagogia attiva che completi l’insegnamento impartito in sede di istruzione obbligatoria;

i musei didattici si propongono in tal modo come entità educative a pieno titolo e chiamano le famiglie a porsi come partners culturali dei piccoli.

Principali obiettivi della Città dei Bambini di Genova sono:

- esplorare uno spazio sconosciuto e costruire relazioni;

- affermare la propria autonomia in uno spazio determinato in rapporto agli altri e agli oggetti;

- stimolare la curiosità e porre interrogativi a sé e agli altri;

- osservare, identificarsi, imitare, paragonarsi;

- avviare all’apprendimento della lettura/scrittura;

- selezionare e utilizzare le risorse a disposizione;

- ampliare il vocabolario personale.

Diritto al gioco e ludoteca

Il diritto al gioco trova la sua più immediata applicazione nella ludoteca, che vengono però realizzate, nella stragrande maggioranza dei casi, come “biblioteche del giocattolo”. Questa, come dice Fraco Frabboni, non è solo vetrina di esposizione e noleggio ma centrale ideativa di prima sperimentazione di giocattoli alternativi e archetipi ludici. In essa il giocattolo non serve solo per giocare ma anche per essere smontato, aggiustato, costruito: i giocattoli diventano, agazzaniamente, “cianfrusaglie” infinitamente giocabili.

Secondo gli Orientamenti alla progettazione degli interventi previsti dalla legge 285/97 del Centro di Documentazione ed Analisi sull’Infanzia e sull’Adolescenza, l’identità culturale della ludoteca è quella di un servizio in cui i giochi ed i giocattoli occupano uno spazio preminente, diventano oggetti significativi per le loro capacità di sviluppare interessi, attitudini, competenze sul piano individuale o di gruppo, a livello logico, linguistico, comunicativo e manuale.

Tali obiettivi sono perseguiti inmmaniera esemplare da Arethusa, che gestisce due ludoteche a Montalto di Castro in provincia di Viterbo, la quale ha ideato anche il ludobus o ludoteca viaggiante che propone feste, animazioni nin scuole e centri del comprensorio. Tali obiettivi educativi rappresentano lo sviluppo di quelli individuati sin dagli anni Settanta dal Centre Pédagogique du jouet di Lione, cui ha dato impulso, sempre in Francia, la promozione delle ZEP (Zone di Educazione Primaria). In tali aree si è sfruttata la possibilità offerta dallo spazio ludico come contesto di continuità intergenerazionale e inter-istituzionale.