giovedì 8 ottobre 2009

Il bene della bellezza

“E più sento il bene di questa bellezza”: queste parole sono state scritte da Michelangelo ed è significativo che sia stato proprio un artista a scriverle. Michelangelo che, terminato il Mosè, gli lanciò contro il martello gridando ‘parla!!!’, ha cercato sempre di far vivere nella sua arte l’equilibrio naturale tra l’uomo e l’universo e nella plasticità delle forme è andato oltre il limite imitativo per aspirare ai vertici della bellezza che si esprime nella tensione verso i misteri più profondi dell’uomo e verso le ragioni del suo essere nel mondo. Non è, questo, un concetto legato al classico ‘bello e buono’ (kalokagathòs) nel senso di ‘ciò che è bello è buono’ ma, sorprendentemente vicino al concetto moderno di ‘ciò che è buono è bello’.

E’ a questo concetto che dobbiamo dar valore e forza per sottrarci al processo di omologazione culturale.

Non è certo sperabile che la società possa contrastare il processo di globalizzazione economica e commerciale in atto poiché essa non può ingaggiare una lotta impari, che la vedrebbe perdente, contro i grandi capitali e i poteri forti che lo determinano, ma possiamo almeno – e dobbiamo – evitare la globalizzazione delle coscienze, il pensiero unico e l’impoverimento culturale e spirituale che ci sta colpendo. L’uomo sta oggi perdendo il senso dei mezzi e dei fini, dal momento che la cancellazione dei tratti simbolici ha prodotto l’oscuramento di ogni orizzonte di senso: egli non sa di dove viene né dove deve e vuole andare, l’individualismo gregario, effetto tipico della globalizzazione, lo ha lasciato libero di fare quel che fanno gli altri e si è perciò rassegnato a vivere nei non-luoghi dove, insieme con i suoi simili, è omnia possidens, nihil habens.

Vediamo anche con la riforma della scuola, che confonde le ‘materie’ con gli strumenti, le ‘educazioni’ ovvero le istruzioni per il miglior uso del migliore dei mondi possibili, con l’educazione nella sua interezza, nel senso più alto e nobile del termine che il progetto di formare un individuo che vale soltanto come pezzo da inserire nel ciclo produttivo dà esito in quello di formare non già dei cittadini ma dei sudditi che vivono nei casermoni delle periferie e non relazionano tra loro, con bambini senza più stupore né fantasia.

Abbiamo un’infanzia senza più sogni, prodotto di una società adulta indifferente e sfiduciata perché priva di riferimenti certi, e misuriamo la profondità di questo solco di perdita e di vacuità in una distanza cronologicamente breve ma storicamente lunga, consumatasi cioè in un arco breve di tempo ma pesante di incidenze che ci sembrano inevitabili e irrimediabili: siamo di fronte, evidentemente, a un fenomeno caratteristico del secolo breve descritto da Hobsbawm. Educatori della parola come Paulo Freire e don Lorenzo Milani, dalla forte personalità e distinti da una passione e da una fede nei valori forti, hanno agito negli ultimi decenni del Novecento, eppure ci appaiono, se non inattuali, improponibili portatori di un messaggio eroico che non trova referenti nel nostro mondo.

In realtà, quel che sta all’origine di questo fenomeno di straniamento e di lontananza da un orizzonte di senso è la perdita del significato sociale della bellezza e di ciò che è bello nella misura in cui esprime valori condivisi e ci conferisce un’identità e un sentimento di appartenenza. Il diritto a ‘una bellezza che ci educa’, di cui abbiamo parlato lo scorso anno, è dato da un’entità che ci fa essere e nella quale possiamo riconoscerci, uno spazio nel quale possiamo ‘giocare’ tutti e invitare tutti a ‘giocare’ per una giubilazione dello scacco.

E’ possibile reagire, dunque, dando una significazione sociale ai nostri progetti ed estendendo lo spettro della nostra azione: non più conservazione pura e semplice del territorio ma territorio come laboratorio di esperienze possibili, nel quale incontrarsi con l’altro con la consapevolezza di quel che siamo e del nostro essere ‘noi’ e non solamente ‘io’; territorio non più come capitale della memoria ma memoria come punto di lancio verso l’avvenire: scoperta del gusto di dialogare e di provare forme nuove di dialogo, formazione di un immaginario collettivo alternativo e originale che tragga dalla cultura-patrimonio gli anticorpi contro l’invasione di forme pseudoculturali che sono estranee e artificiali.

E’ bene servirci conservare forme della nostra cultura per combinarle in un linguaggio nostro e vivere un’esperienza di libertà, educare i bambini a questo gusto di leggere il territorio come un libro aperto e di auscultarne il battito come un racconto, perché ogni ambiente ha qualcosa da raccontare.

Insomma, una ‘pedagogia del territorio’ per raccontarci, esprimerci, comunicare nei linguaggi simbolici per gettare un ponte tra noi e gli altri, che sono sempre più lontani, dall’altra parte dello schermo all’interno del quale tra uno spot pubblicitario e l’altro vediamo guerre, uccisioni e massacri come stessimo guardando una fiction o un teatrino televisivo, senza la forza di gridare il nostro sdegno e il nostro dolore. Anche poter piangere per questi orrori è ‘bellezza’: è bellezza ciò che nella nostra quotidianità ci rimanda un’immagine non deformata di noi e, soprattutto, ci fa sentire noi e non soltanto tristemente io.

L’uomo africano, come è stato osservato, nasce noi: non ormai non nasciamo più così, ma dobbiamo diventarlo, e per questo dobbiamo lavorare, e soprattutto credere.

Franco Trequadrini

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