giovedì 8 ottobre 2009

Edda entrò...

Edda entrò nella cameretta disadorna e nuda dell’ultimo piano dell’Hotel Sole, che chiamavano mansarda ma in realtà era il sottotetto, dov’erano camere senza servizi a basso prezzo, e rimase col cappotto perché faceva un freddo glaciale, di quelli tipici dell’antica città abruzzese di montagna che ormai aveva adottato. Aveva un cappotto di vecchio disegno ma dignitoso ed elegante, e una bella sciarpa di alpaca. Mai si sarebbe messa al collo una pelliccia di volpe, né avrebbe indossato una pelliccia se pure avesse avuto la possibilità di comprarne una, e soprattutto non in quella città, alla quale amava contrapporsi per le abitudini codine e provinciali, dove le signore andavano al mercato col cappellino con la veletta. Aveva oltretutto, rispetto a quelle signore, un aspetto più fiero e di sfida alla vecchiaia. Dal portamento dritto e dagli occhi chiari e grandi, dal punto-vita ancora ben visibile e dalle gambe lunghe, si vedeva che era stata una donna bellissima abituata ad avere con gli uomini un rapporto di grande confidenza ma dominante. La sua persona aveva ancora una sensibilità nobile pur se non trasmetteva segnali di sessualità: una donna vitale che non si era accomodata nei ruoli di suocera e di nonna o, peggio, nei riti insulsi e sempre eguali della provincia come la messa, il bridge e la Croce Rossa.

Veniva quando poteva cioè quando era riuscita a mettere da parte i soldi per pagarsi il viaggio, l’albergo, i pasti in trattoria e i fiori per il cimitero, e per lei non era facile perché i lavoratori dello spettacolo dovevano lavorare almeno novanta giorni consecutivi per avere diritto all’assistenza sanitaria e ad altre forme di assistenza e di previdenza. Anche se aveva avuto un esordio promettente nelle compagnie di Ermete Zacconi e di Ruggero Ruggeri ma aveva preferito rinunciare alla carriera per restare al fianco e all’ombra del suo uomo, scrittore e giornalista di successo, non era facile per lei ottenere una scrittura: una comparsata ogni tanto, la moda degli sceneggiati televisivi le dava pure una mano, ma anche per quello c’era da sgomitare e bisognava avere conoscenze: una folla di ex-famosi, angeli caduti, ed ex-promettenti facevano ressa per vincere la fame, per non parlare poi delle giovani arrembanti che sognavano di sostare qualche attimo sotto i riflettori del set.

Lei poteva solo fare la caratterista, per di più in ruolo di secondissimo piano. Ne era contenta, comunque, perché avrebbe accettato qualunque cosa pur di potersi dedicare a riordinare le carte lasciate da Gaspare, i suoi articoli, i pezzi inediti, comporli in volumi secondo le volontà di lui, e contattare critici, editori per proporre pubblicazioni, recensioni, e poi venire quando poteva all’Aquila per posare fiori sulla sua tomba. Gaspare aveva lasciato il mondo ma non la vita, la sua vita, e questa era dedicata interamente e totalmente a lui.

Quella sera si accostò alla finestra, poi si sedette e si mise a guardare con fissità il cimitero illuminato (si faceva riservare sempre la stessa camera, dalla quale si poteva vedere il cimitero): era una sera speciale, quella del decimo anniversario. Estrasse dal portafoglio una ciocca di capelli, i capelli di Gaspare, e cominciò a carezzarli delicatamente con i polpastrelli, piangendo silenziosa. Lacrime sottili le sgorgavano dagli occhi e le finivano in bocca e lei inghiottiva quel sale che ormai era l’unico sapore rimasto del suo grande amore. Un sapore rapido e intenso che aveva una sorgiva lontana e sciorinava ogni volta una lunga teoria di ore, giorni e anni agglutinati in un senso unico e perduto, posseduto e ora nascosto a lei che per esso viveva. Quando questa percezione di perdita si faceva più acuta il pianto diventava dirotto e avrebbe voluto gridare e non lo faceva solo perché sapeva che lui mai avrebbe potuto rispondere al suo Zippo.

Erano gli ultimi giorni di dicembre di undici anni prima, quando in ospedale gli chiese, per convincerlo che poteva ancora usare la mano per scrivere, di scrivere su un foglio “cane”, e lui scrisse “gane”.

‘Lo vedi che sei un abruzzese? Sei sempre stato impastato d’Abruzzo, ju Grancasse e ju lupe, e lì, del resto, hai cominciato a scrivere’.

Si riferiva agli anni giovanili di Gaspare, quando fuori della sua cameretta aveva attaccato un’etichetta con scritto “Giornalista”, perché da piccolo si era invaghito delle tavole di Beltrame della Domenica del Corriere e ancora di più dei giornalini di avventure e scoperte che circolavano nelle case dei ragazzini della borghesia. Gaspare aveva cominciato presto a navigare nel mare dei Sargassi e a traversare i grandi fiumi d’Africa, protagonisti dei racconti di suo padre. Fu preso presto dal fascino della lontananza e non gli bastò sapere che sui grandi vulcani messicani si compivano sacrifici umani o che a New York gli Italiani avevano creato la Little Italy, voleva vedere queste cose e raccontarle agli altri. A che serve vedere e provare se non si partecipa agli altri? Era finito il tempo dello scrittore rinchiuso nella solitudine del suo scrittorio, ora si spalancava un mondo più grande con strade che lo scrittore doveva percorrere, perciò doveva uscire, scommettere, misurarsi con la realtà e raccontare poi com’è andata e come potrebbe andare. In una parola, testimoniare.

Diventò questo il suo assillo. Testimoniare, essere testimone del suo tempo.

Così fece le valigie per Roma, e ci mise dentro, senza saperlo, i giochi con una scrittrice concittadina destinata a grandi successi, l’uzzo dei primi amori liceali e dei flirt consumati nelle gite domenicali sul Gran Sasso, a strapparsi baci con una ragazza dietro un masso nell’aria luminosa e cruda delle domeniche di maggio.

A Edda faceva tenerezza quel giovanotto abruzzese d’origine siciliana che a un fisico robusto e temprato univa il fascino di un profilo arabo del volto, con occhi azzurri e liquidi che fissavano sempre l’immensità di un deserto o di un oceano, perché di quel gigante aveva conosciuto tutte le fragilità, gli preparava cucine leggere per tenergli lo stomaco in ordine poiché gli spostamenti continui per il mondo lo mettevano a dura prova, lo asciugava quando usciva dalla doccia per baciarselo tutto e lo confortava quando era deluso da un giudizio malevolo o ingannato da uno che credeva amico, lui che dell’amicizia aveva un rispetto sacro.

Quando tenne l’ultima conferenza prima di morire, all’Hotel George V di Parigi, Gaspare le scrisse una lettera breve ma intensa e commossa, intrisa di rimpianto e di una nostalgia che si modulava su una nota tenue e sommessa ma lunga, che veniva di lontano, da un grumo di emozioni irripetibili che nella vita è dato di provare una volta sola e non è dato dalla giovinezza della quale abbiamo tutti un’idea convenzionale: ognuno ha la sua giovinezza, presto o tardi, qualcuno riesce anche ad averne una seconda ma deve sapersela propiziare e meritare, ci deve arrivare a costo di grandi errori e di grandi sofferenze, di quelle che insegnano. Gaspare aveva preso quel che aveva potuto, non aveva avuto la forza di prolungare quella eternità breve e di contrastare le relazioni che nella vita si creano e si mantengono perché diventano infrastrutture, come un ponte o un cavalcavia, o un terrazzo e non si ha la forza di modificare, abbattere…. Dunque, ‘Caro Zippo, non è più la nostra Parigi….’. Forse voleva dire che ormai, prossimo alla fine, niente era più come prima, era la fine della festa, si cominciava a sparecchiare, si mettevano via i bicchieri con i fondi di avanzo, i coriandoli e le cicche di sigarette rimanevano per terra, le finestre semiaperte più che far entrare la luce dovevano far uscire l’aria viziata. Gaspare si sentiva probabilmente così, si stava togliendo il vizio di vivere, si era alzato dal tavolo come faceva ai bei tempi a via Veneto, quando stava a vuotare bicchieri di wisky. Si era alzato, non aveva più voglia di chiederne un altro, e neanche voleva che gli venisse offerto.

Fu in quel periodo di sospensione che doveva traghettarlo oltre la vita che Edda gli fece scrivere “gane”: volle riportarlo verso un tempo e un luogo ancestrale in cui era un ragazzo che doveva ancora diventare il “ciccione viaggiatore” che avrebbe rivoltato il mappamondo come le sue tasche, perché così poteva coccolarselo, tenerlo sulle ginocchia e cantargli canzoni dolci come facevano le baie della sua terra, il Veneto, per costruire daccapo la storia di lui come fosse uscito dal suo grembo, partorito da lei. In effetti quell’uomo era passato attraverso le sue viscere e si era nutrito del suo sangue e dei suoi sudori, delle sue lacrime. Lui era il “dottore” riverito e rispettato da tutti, ufficialmente in famiglia con la moglietta piccola e sgraziata dal naso che pioveva in bocca, e girava per il mondo intero, partiva e si imbarcava su piroscafi e carrette del mare, attraversava deserti e praterie su jeep scassate, intervistava presidenti e sballate che si credevano regine hawaiane, ma al ritorno, al taxi dava l’indirizzo di Edda, che era rimasta a casa, sola, tra le ombre in compagnia del gatto, a tenere rapporti con giornali, giornalisti a chiedere servizi e contratti, a frequentare Cinecittà e la televisione per commesse di servizi speciali e documentari. A quelle porte dove bussava le aprivano, specie quelli che ricordavano l’avvenente signorina che era stata, alta, occhi azzurri e portamento regale, che si era messa in luce con Ruggero Ruggeri ed Ermete Zacconi ed era riuscita a tenere a posto tutti i marpioni che ci avevano provato. Diventava una tigre se qualcuno osava mettere in dubbio la potestà del territorio di Gaspare: Gaspare era del mondo, ma lei era tutta e solo di Gaspare perché era lei che aveva scelto e aveva deciso.

Per questo Gaspare era anche suo figlio, creatura sua. In lui si vedeva e si riconosceva, e quando nei primi giorni di gennaio Gaspare spirò lei si sentì pesare sul ventre una palla di ferro nera e cocente come un cancro e uscì di casa furente, gridando e piangendo come una guerriera ferita: alla città chiedeva che ne aveva fatto del suo uomo, in quale buio anfratto avesse osato nasconderlo per sottrarlo alla sua adorazione, indifeso e debole com’era, così come sono tutti gli uomini per le loro donne innamorate. Era morto mentre gli passava una mano tra i capelli e con l’altra solleticava il palmo canticchiando fra i singhiozzi “… in mezzo a una piazza ci sta una pecora pazza … “. Poi aveva telefonato alla figlia per dirle di avvertire sua madre, che poteva venire a fare la parte della vedova addolorata, e uscì di corsa, per serbare fino all’ultimo l’apparenza di perbenismo. Del resto, a quel punto lei poteva anche stare nell’ombra, ci andasse la vedova a prenderselo per il funerale, glie la lasciava la salma, la spoglia mortale di un uomo che nel suo cuore era stato da sempre praticamente morto, nient’altro che un marito e mai un uomo da amare. Gaspare vivo rimaneva nelle pieghe della sua carne, vita della sua vita. Se l’era creata e lo aveva partorito proprio per questo.

Arrivò l’alba ai vetri in quella cameretta squallida. Si fece portare su il caffè e chiese di qualcuno che potesse farle un’iniezione. I reumatismi e l’artrite cominciavano a lacerarla, e il cuore perdeva dei colpi. Poi telefonò al priore della Confraternita di San Biagio, perché voleva iscriversi. Aveva messo da parte una somma anche per quella bisogna: avrebbe fatto una donazione, si sarebbe iscritta e avrebbe acquistato un loculo nel cimitero cittadino, così avrebbe acquisito il diritto di essere tumulata in quella città che non amava vicino al suo uomo: a che era servito vivere se non avesse potuto condividere con lui l’eternità?

L’eternità era per lei un’idealità che non aveva nulla a che vedere col sentimento religioso chè, anzi, aveva un supremo scherno di tutto ciò che sapeva di chiesa e di preti, tanto che raccontava – chissà se era vero – di una comune amica, Letizia, fanatica e disturbata donna che aveva la carnagione bianchissima e vestiva in modo quasi monacale, che era stata l’amante del papa attuale prima che venisse eletto al soglio pontificio. Andava a casa e salmodiava sottovoce, rapita ed estatica come Teresa d’Avila e Gaspare per la noia mortale si addormentava. A lei aveva raccontato dei suoi amplessi appassionati e audaci con Sua Santità e lei più volte, diceva, era stata tentata di andare a piazza S. Pietro all’Angelus per gridare, dopo la benedizione: ‘Sì, va bè, ma Letizia dov’èeee?”‘

Amava credere, e ci credeva, che ci sono cose al mondo, come la bellezza, l’amore, l’arte, che non possono morire perché sono incompatibili col concetto stesso di morte, e che lei avrebbe condiviso l’eternità con Gaspare era cosa che nessuno poteva minimamente mettere in discussione.

Aveva scelto un posto ovviamente vicino alla tomba di Gaspare, sulla quale aveva fatto apporre una lapide con incisi i versi dell’Amleto: un grande cuore si è abbattuto, lo accolgano schiere di angeli…., ma non accanto bensì in una fila laterale poco dietro, quasi non volesse dare all’occhio neanche nel regno dei morti.

Il priore arrivo nella hall, salutò untuoso e falsamente gentile e lei non lo guardava, il suo sguardo gli passava sopra i radi capelli e andava oltre, oltre la sciarpetta composta sotto il collo del cappotto, oltre il berretto tenuto in mano senza alcuna regalità: vedeva in ogni situazione l’imponenza di Gaspare e i suoi occhi azzurri fatti per mirare lontane distanze, e il suo profilo di antico nobile arabo-siculo che le faceva correre ancora adesso un brivido lungo la schiena. Il priore cercava di far apparire difficili le cose, parlava con sussiego dell’autorità di monsignor vescovo… e lei stizzita alzò la voce e disse:

- ecco i soldi, glie li porti. Si accontenterà, come si sono sempre accontentati, i preti!!!

E uscì.

Doveva comprare i fiori per il cimitero.

Al mercato Edda girava tra le bancarelle in cerca di fiori di campo a non ne trovò, perché quei fiorellini di montagna dai colori sul viola e sull’iris p di scoppi lamellari di giallo sono scomodi da andare a prendere e anche antieconomici: quanta fatica per farne un mazzetto presentabile? Lei brontolava, apostrofava quei montanari pigri e retrogradi, ancora troppo legati alla pecora e alla zampogna, poco amanti dell’acqua e sapone. Apostrofava anche il trattore, sempre lo stesso, dal quale andava a mangiare, perché non teneva le mozzarelle nell’acqua e non portava il cane dal veterinario. C’era molto dell’abruzzese in quel suo modo di fare brusco e di osservare con severità i comportamenti degli altri, amati sì ma con prudenza e anche un po’ di diffidenza. In realtà l’addolorava molto venire all’Aquila per andare a trovare Gaspare al cimitero; ci sarebbe venuta volentieri solo con lui, per rivedere via S. Amico dove da bambino giocava con Laudomia Bonanni, la stanza dove da bambino aveva incollato sulla porta un foglio con scritto “G.G.N. – Giornalista”, i portici della CIT da dove la domenica partiva con la corriera per il Gran Sasso, o a bere il wisky con l’acqua, alla maniera degli scozzesi, al Caffè Americano. Era un mondo scomparso quasi contemporaneamente a lui, spazzato via da un nuovo che s’imponeva con arroganza e con prepotenza mutando e stravolgendo le forme e i contenuti quasi per voler distruggere anche il ricordo, come sempre fa il vecchio col nuovo. E’ sempre stato così, e Gaspare ne avrebbe preso “da cronista, atto”.

Una sera estrasse da una cartella dove teneva cartelle dattiloscritte con cura quella vecchia lettera autografa che diceva “Caro Zippo, non è più la nostra Parigi…”. Fu una delle. Era stata scritta da Parigi dove Gaspare, ormai affaticato e piegato dal male, gonfio e dallo sguardo triste, era andato per tenere una conferenza, che fu l’ultima, sull’Abruzzo, Les Abruzzes, commissionata dagli Enti provinciali per il turismo abruzzesi. Del resto, in quella conferenza parlò di un suo Abruzzo rimasto ormai remoto nel tempo, con le feste al Circolo Aternino di Pescara, il Ristorante Guerino e Spizzico, e le Panarde alle Tre Marie, che non corrispondeva all’Abruzzo attuale. Gaspare viveva dunque del suo passato, perché non gli era rimasto altro che quello, e nelle rare sortite in pubblico portava il monumento di se stesso. Che dolore, che paradossale e spietata fatalità restare fermo su se stesso per un uomo che si era arrampicato sulla crosta terrestre e aveva giocato col mappamondo come si gioca con un giocattolo, sempre pronto a giocarsi la vita in un attimo. Edda sentiva questi pensieri percorrerla lungo la schiena in forma di brivido, e mentre lavava i portafiori e sistemava le rose (rosen, doveva portare rosen a una signora, aveva detto al maggiore inglese della Black Watch per uscire dalla prigione della caserma) sentì montare il pianto, i ricordi sciogliersi e trovare finalmente la strada e si fermò; estrasse dal portamonete una ciocca di capelli di lui e se la mise alla bocca e la baciò la baciò più volte disperatamente, e sentì tutta la tenerezza per quell’omone imponente, gigante dai piedi d’argilla lo aveva definito, e le sembrò, anzi ebbe la certezza di averlo ospitato nel suo corpo per dargli un rifugio, una casa ai suoi sogni e alle sue fragilità, e le parve di averlo fatto lei Gaspare, perché dentro di lei si era generato senza paura, e onorava adesso la sua tomba con la stessa pietà che hanno le madri sulla tomba dei figli,rivivendo le ore delle veglie e delle attese come un lungo pellegrinaggio che desiderava si sciogliesse in nenia, di quelle nenie che cantano le vedove e le madri nei funerali del sud. Adesso Edda non era la leonessa pronta all’attacco e alla difesa ma la madre dolente meridionale, racchiusa nell’abito nero del lutto, monumento di silenzio che sente il battito dei millenni.

Ripulì con uno straccio umido le lettere dell’epigrafe, tratta dall’Amleto: “un grande cuore si è spezzato. Lo accompagni un coro di colombe”, e si avviò verso l’uscita. Diede la mancia al frate custode e riprese il viale verso la città. L’aria odorava di freddo, gli alberi nudi erano immagini di un tempo pietrificato senza attesa e il sapore dolciastro dell’aria di neve metteva voglia di tiepidità, di minestra calda e sapida, d fuoco acceso.

Per lei c’era ad attenderla la cameretta povera dell’abbaino dell’Hotel Sole, con la finestra che guardava verso il cimitero e una sedia malferma.

Anche quel mese aveva compiuto il suo rito d’amore.

Nei commiati che prendeva con la gente non diceva mai “ci vedremo il prossimo mese” o tra quindici giorni ma genericamente “alla prossima volta”, che non sapeva mai quale sarebbe stata. Sicuro era solo che lei avrebbe fatto di tutto perché quella volta ci fosse, perché viveva esclusivamente di quello. Tornava a Roma, nell’appartamento sempre più solo u buio di via Fontanella Borghese, dove viveva ancora un vecchio gatto bianco che un tempo aveva vissuto i suoi gagliardi e combattuti amori, come diceva Gaspare, e la sua scrivania con i souvenirs di viaggio. Tra questi spiccavano i tamburi africani che gli aborigeni usavano per comunicare e ritmare la danze orgiastiche di cui poi abbiamo letto nelle pagine di Tam Tam Mayumbe, e visto nel film che ne fu tratto e interpretato, forse più per omaggio di amicizia personale, dal grande Pedro Armendariz. Qui rispogliava quelle pagine dell’edizione Vallecchi dalla copertina che sembrava più una locandina da cinema, con le negre che danzavano lasciando generosamente vedere le cosce ed avevano labbra di rossetto acceso che non avrebbe spiccato neanche sul volto più candido di un’attrice bianca. “Romanzi, romanzi, è il sogno di tutti i giornalisti, di tutti voi scrittori falliti, disse Ellen a Bruno”, era scritto nel secondo capitolo di quel libro, e Edda se lo stringeva al petto rivendicando che tanti mediocri avevano avuto fortuna letteraria più grande di Gaspare, e che tutti avevano fatto ricorso a lui per un consiglio o per una raccomandazione, per entrare in un giornale, ottenere una recensione, e lui non aveva mai detto di no a nessuno. Pettegolezzo e storia della letteratura per lei non facevano mota differenza, per via del patto d’amore con Gaspare si sentiva legittima cittadina della repubblica delle lettere che, in effetti, era fatta anche di storie molto miserabili.

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