giovedì 8 ottobre 2009

L'educatore: miglior genitore possibile?

Chiedersi d’emblée se l’educatore possa essere il miglior genitore possibile sottende un altro interrogativo, se cioè l’educatore debba essere genitore, se sia lecito cioè che egli assuma un ruolo e una funzione che non dovrebbe competergli. Se la domanda viene posta - e io credo che venga posta legittimamente – evidentemente abbiamo la percezione di un disagio diffuso nello svolgimento dei ruoli tanto genitoriali quanto professionalmente educativi, e non soltanto di fronte a casi border-line o di vero e proprio burnout.

La condizione di ipercomplessità nella quale la nostra società vive segna in maniera sempre più evidente la crisi di due entità che sono al tramonto storico di una funzione e che debbono ridisegnare innanzitutto un orizzonte di senso. Sul mio versante di osservazione, che è quello pedagogico, si osserva una idealizzazione che pone l’adulto sullo stesso piano del bambino, nella relazione educativa, in modo che il bambino cresca e l’adulto a sua volta riceva dal bambino stesso un’innocenza che lo rigenera. Questo ha una valenza sentimentale e simbolica alta e nobile, ma bisogna però vedere quanto detta valenza garantisca al bambino una crescita giusta: in tal modo si rischia che i ruoli si invertano, e che la trasmissione culturale e l’alfabetizzazione culturale diventino processi deleteri e disumanizzanti. Se così è, il bambino viene a trovarsi in una sorta di prigione dorata connotata da solitudine familiare (prassi del figlio unico) e sociale (protezione, isolamento, mancanza di contatti che preludono all’amicizia, all’amore ecc.).

Su questa base ovvero sulla base di fenomeni introiettivi e proiettivi si produce quello che Loris Malaguzzi afferma ne I cento linguaggi dei bambini:

i genitori educano i loro figli come i principi governano i loro popoli e lo stesso adulto si scandalizza a pensare che l’essere umano allo stato infantile sia già persona;

Molti ricercatori voltarono e rivoltarono il bambino, riducendolo a segmenti sempre più piccoli, finoa perdere, oltre il suo senso, anche il senso di quello che stavano facendo. Altri si rimisero e resuscitare metafore ed a parlare di bambini insipienti, poveri di spirito, banali e maneggevoli, e per questo meritevoli di attenzione e di grandissima protezione. Altri ancora a mettere in risalto dei bambini non quello che sono e sanno ma quello che non sono e non sanno rispetto alle favolose saggezze dell’adulto.

Da una parte, dunque, una famiglia che iperprotegge e soffoca, dall’altra una scuola che contrappone sentimenti e affetti e spinge in maniera eccessiva in direzione cognitiva e della crescita intellettuale. Si aggiunga poi che, sia per la complessità dell’organizzazione della vita, sia per l’estensione della sicurezza protettiva, il bambino viene relegato all’interno di istituzioni totali (asilo nido, scuola d’infanzia ecc.) che contemplano appunto questo sviluppo squilibrato in direzione cognitiva.

Ma non solo: nelle istituzioni prescolastiche e di istruzione elementare gli operatori sono in gran parte di sesso femminile e, quindi, lo stereotipo paterno è assente e si ripropone il problema del “padre assente” e della “società senza padri”; lo stereotipo sessuale, inoltre, ha disorientato gli operatori per l’infanzia riproponendo vecchie concezioni separatiste (classi monosessuate). Quanto detto finora vale, dicevo in apertura, per l’infanzia in genere.

Riferendoci a un’infanzia afflitta da particolari problemi (bambini che soffrono le disfunzioni relazionali e affettive della famiglia separata o ricostituita, monogenitoriale o artificiale) l’educatore viene a svolgere una funzione particolarmente delicata perché deve fondere in uno, cioè nella sua persona, la funzione di operatore educativo e di genitore.

Se si prescinde dall’esigenza primaria di funzione di caretaker (erogatore di cure materne) nella fase di accoglienza, l’educatore può assumersi un ruolo che il genitore di oggi, forse per mancanza di fiducia nella sua competenza a trasmettere il senso della vita, non si assume, ed è quella di partner culturale del bambino.

Per fare ciò bisogna che l’operatore pensi percorsi sempre più e sempre meglio centrati sui bisogni e sui diritti del bambino e cerchi di garantire al bambino il diritto di vivere il tempo dell’infanzia, che è il suo diritto fondamentale. Credo sia la forma migliore per conciliare la funzione educativa fuori di un’ottica protocollare e auroreferenziale e quella genitoriale fuori di una logica privatistica, possessiva e antisociale.

Diritti culturali

E’ ormai superata da tempo la convinzione che i diritti biologici prevalgano su quelli culturali. Questi hanno centralità ma bisogna ricordare che quando si parla di infanzia non si parla di “fruizione della cultura” – a proposito di diritti culturali – ma di qualità della vita: è alla nozione di “qualità della vita” che si rifà l’enunciato del diritto alla ludicità: l’arte, in fondo, nasce per caso, dal gioco della creatività.

Infanzia e arte

Il diritto del bambino a fruire dell’arte sposta l’attenzione pedagogica dal momento intuitivo a quello ermeneutico. Marco Dallari, il più grande teorico della pedagogia dell’arte, dice che la didattica dell’arte, intesa come esperienza laboratoriale, intende l’opera d’arte più come pretesto che come testo. Ciò significa che viene esteso all’arte il concetto che “trasmettere il sapere è rifarlo insieme”. Attraverso questa esplicitazione didattica il bambino acquista consapevolezza della differenza tra comunicazione comune e comunicazione artistica e che, se nella comunicazione comune la funzione del ricevente è pasiva, in quella artistica è attiva [del resto, tutto ciò non è nuovo a chi ha un minimo di conoscenza di letteratura per l’infanzia e di tutta l’opera e dell’impegno di Gianni Rodari].

Affinché tale pratica didattica sia possibile e possa emergere l’orizzonte di senso, occorrerebbe che i musei per l’infanzia, molto diffusi per esempio in Spagna, fossero diffusi, ma qui in Italia lo sono assai poco.

Diritto al gioco. I musei

Demistificare la conoscenza con il gioco e manipolare i fenomeni non è attività che ha ricaduta solo sul piano estetico ma sul pieno pedagogico nella sua totalità, perché anche la scienza è strettamente legata al gioco: essa non parte dalle osservazioni ma dal gioco sempre diverso delle congetture, e le osservazioni sono, come le chiama il testo di Bobbio, “il tribunale della fantasia”.

Per questo sono da realizzare e diffondere strutture museali “mirate”, come la Cité des Enfants di Parigi e la Città dei Bambini di Genova.

Nella prima si propone di fare della scoperta delle scienze un’attività accessibile a tutti, di favorire l’accesso dei bambini alle conoscenze attraverso una pedagogia attiva che completi l’insegnamento impartito in sede di istruzione obbligatoria;

i musei didattici si propongono in tal modo come entità educative a pieno titolo e chiamano le famiglie a porsi come partners culturali dei piccoli.

Principali obiettivi della Città dei Bambini di Genova sono:

- esplorare uno spazio sconosciuto e costruire relazioni;

- affermare la propria autonomia in uno spazio determinato in rapporto agli altri e agli oggetti;

- stimolare la curiosità e porre interrogativi a sé e agli altri;

- osservare, identificarsi, imitare, paragonarsi;

- avviare all’apprendimento della lettura/scrittura;

- selezionare e utilizzare le risorse a disposizione;

- ampliare il vocabolario personale.

Diritto al gioco e ludoteca

Il diritto al gioco trova la sua più immediata applicazione nella ludoteca, che vengono però realizzate, nella stragrande maggioranza dei casi, come “biblioteche del giocattolo”. Questa, come dice Fraco Frabboni, non è solo vetrina di esposizione e noleggio ma centrale ideativa di prima sperimentazione di giocattoli alternativi e archetipi ludici. In essa il giocattolo non serve solo per giocare ma anche per essere smontato, aggiustato, costruito: i giocattoli diventano, agazzaniamente, “cianfrusaglie” infinitamente giocabili.

Secondo gli Orientamenti alla progettazione degli interventi previsti dalla legge 285/97 del Centro di Documentazione ed Analisi sull’Infanzia e sull’Adolescenza, l’identità culturale della ludoteca è quella di un servizio in cui i giochi ed i giocattoli occupano uno spazio preminente, diventano oggetti significativi per le loro capacità di sviluppare interessi, attitudini, competenze sul piano individuale o di gruppo, a livello logico, linguistico, comunicativo e manuale.

Tali obiettivi sono perseguiti inmmaniera esemplare da Arethusa, che gestisce due ludoteche a Montalto di Castro in provincia di Viterbo, la quale ha ideato anche il ludobus o ludoteca viaggiante che propone feste, animazioni nin scuole e centri del comprensorio. Tali obiettivi educativi rappresentano lo sviluppo di quelli individuati sin dagli anni Settanta dal Centre Pédagogique du jouet di Lione, cui ha dato impulso, sempre in Francia, la promozione delle ZEP (Zone di Educazione Primaria). In tali aree si è sfruttata la possibilità offerta dallo spazio ludico come contesto di continuità intergenerazionale e inter-istituzionale.

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