martedì 24 maggio 2011

L'Argentina vista da Giuseppe Cannoni

IN ARGENTINA A PASSO DI TANGO CON LE FOTO DI GIUSEPPE CANNONI

Le immagini scorrono mentre una musica malinconica fa sorgere lontane e bollenti nostalgie di quando solcarono le onde dell’Oceano gli emigranti italiani coi piroscafi, e con essi un giorno Dino Campana che fuggiva dalla foresta pietrificata che era diventata l’Europa, incantato al bagliore magnetico delle stelle, con in cuore e nei sensi le immagini dei porti, le prostitute colossali, e pensando alla casa tetra di Toscana e ai manicomi dell’adolescenza si scioglieva in un passionale grido: per noi che piangiamo gridiamo: fede all’azzurro…

Fino a Buenos Aires: avamposto d’Europa nelle Americhe, volto sofferente della delusione del sogno americano, vissuta sulla pelle e nel sangue, e presenza inquieta nella nostra coscienza di europei rimasti legati alla nostra antichità, anche alla povertà, che ci ha difeso dall’urto arrogante e violento dell’America. Buenos Aires, grande capitale del rimpianto, accoglie coi suoi cortei di gauchos che ogni giorno s’inventano la vita, e di pensionati che sfilano in camicette a mezze maniche come i nostri pensionati che l’estate tornano al paese, e ci mozza il fiato col suo déjà vu, così carica dei nostri ieri, delle sue auto scarburate e stanche (dice così la canzone di Francesco Guccini), di quelle macchine che ormai sono la nostra preistoria, e le sue carni alla brace, la Coca Cola, i suoi caffè, le villette col cane, il cimitero con la tomba di Evita Peron, ultima signora che fece credere alLa gente che una donna del popolo poteva pur diventare la prima donna, e si spense poi come un lume acceso sul tavolo mentre le coppie si avvitano nel tango.

Nelle avenidas e nelle gallerie si dischiude tutta, l’Argentina ricca e povera allo stesso tempo; l’Argentina che avrebbe potuto essere ricchissima e invece è poverissima e agli angoli delle strade vende disegni e quadri, mentre i bambini laceri e affamati si aggirano con gli occhi sgomenti tra i turisti e i figuranti che fanno eseguire qualche passo di tango alle signore straniere; Argentina lacera con i vecchi che dormono sulle panchine e dignitosa nel suo silenzio e nell’imbarazzo di chi ha mancato una promessa ma ha un passato da difendere…

Capiamo adesso cosa voleva dire, forse, Borges: forse arriveremo a meritarci un mondo senza governi, dopo che l’incoscienza e inavvedutezza di tanti governi, da Peron a Menem l’hanno sprofondata nella palude del terzo mondo.

Argentina come l’Italia e Italia come l’Argentina: l’Argentina somiglia all’Italia o l’Italia somiglia all’Argentina? Forse è solo esteriorità, perché noi non abbiamo niente di quella dolce e significante tristezza, di quel silenzio e di quel desiderio di giocarsi la vita in un attimo; noi non sopportiamo quel gusto di cose che non s’usano più, non abbiamo una Evita da ricordare, né Borges e Bioy Casares da leggere, e non abbiamo nemmeno la religiosità laica che gli argentini hanno.

Non ci credete? Entrate nella Ventana, accolti dall’immagine di Evita sul balcone che sembra cantare Dont cry for me Argentina e fissate i volti dei ballerini: perdetevi nella loro fissità intensa: quante ne avete sentite sul tango? E’ una religione, è una filosofia di vita, è cultura…. D’accordo, ma che è una preghiera forse non l’avete sentito mai, eppure il tango “figurato” (come diciamo noi per distinguerlo dal nostro volgare schema di passi delle scuole di ballo), con le sue regole fisse, di gioco elementare del maschio e della femmina in cui l’uomo è co-protagonista, la spalla che assiste la donna mentre disegna geometrie impreviste di assoluta bellezza per significare l’irruzione dell’inconscio e dell’eros nella vita quotidiana, un dramma dell’antinomìa tra l’inquietudine e la forma, con i danzatori che nella danza si spersonalizzano come fossero astratti dalla materialità che sta loro intorno, è un esercizio ascetico, un rito di purificazione da una tristezza oltre la storia che intride il sangue e la radice dell’essere.

L’espressione persa della ballerina che si leva sul braccio del partner è di una solitudine e di una angoscia lunga e sottile che è possibile cogliere solo in certe icone sacre. E Dont cry for me Argentina diventa allora un inno di dolore, struggente e ossessivo, che si avvita a se stesso come un bolero.

Le immagini fotografiche, così, sono diventate scrittura, e questa scrittura non descrive ma racconta, e racconta per blocchi di significato, per tranches de vie, come nel Mondo di Ambrosia e Salvatore, delicata storia d’amore e di povertà felice.

E’ la povertà, l’intensità del vivere e lo stupore di essere nonostante tutto ancora al mondo il tema fondamentale di Giuseppe Cannoni, e questo tema, trattato col rigore del metodo e la costanza tenace propria dell’artista che non licenzia la sua opera se non l’ha completata, è un esempio rarissimo di scrittura fotografica, e di narrativa, che non ci era stato dato di cogliere neanche in un fotografo come Cartier Bresson, forse perché Cannoni è proprio un fotografo che a passo di tango va con la macchina fotografica levando lampi di luce e di colore, e sfumate tristezze d’ombra.

Franco Trequadrini

22 dicembre 2004

IN ARGENTINA A PASSO DI TANGO CON LE FOTO DI GIUSEPPE CANNONI

Le immagini scorrono mentre una musica malinconica fa sorgere lontane e bollenti nostalgie di quando solcarono le onde dell’Oceano gli emigranti italiani coi piroscafi, e con essi un giorno Dino Campana che fuggiva dalla foresta pietrificata che era diventata l’Europa, incantato al bagliore magnetico delle stelle, con in cuore e nei sensi le immagini dei porti, le prostitute colossali, e pensando alla casa tetra di Toscana e ai manicomi dell’adolescenza si scioglieva in un passionale grido: per noi che piangiamo gridiamo: fede all’azzurro…

Fino a Buenos Aires: avamposto d’Europa nelle Americhe, volto sofferente della delusione del sogno americano, vissuta sulla pelle e nel sangue, e presenza inquieta nella nostra coscienza di europei rimasti legati alla nostra antichità, anche alla povertà, che ci ha difeso dall’urto arrogante e violento dell’America. Buenos Aires, grande capitale del rimpianto, accoglie coi suoi cortei di gauchos che ogni giorno s’inventano la vita, e di pensionati che sfilano in camicette a mezze maniche come i nostri pensionati che l’estate tornano al paese, e ci mozza il fiato col suo déjà vu, così carica dei nostri ieri, delle sue auto scarburate e stanche (dice così la canzone di Francesco Guccini), di quelle macchine che ormai sono la nostra preistoria, e le sue carni alla brace, la Coca Cola, i suoi caffè, le villette col cane, il cimitero con la tomba di Evita Peron, ultima signora che fece credere alLa gente che una donna del popolo poteva pur diventare la prima donna, e si spense poi come un lume acceso sul tavolo mentre le coppie si avvitano nel tango.

Nelle avenidas e nelle gallerie si dischiude tutta, l’Argentina ricca e povera allo stesso tempo; l’Argentina che avrebbe potuto essere ricchissima e invece è poverissima e agli angoli delle strade vende disegni e quadri, mentre i bambini laceri e affamati si aggirano con gli occhi sgomenti tra i turisti e i figuranti che fanno eseguire qualche passo di tango alle signore straniere; Argentina lacera con i vecchi che dormono sulle panchine e dignitosa nel suo silenzio e nell’imbarazzo di chi ha mancato una promessa ma ha un passato da difendere…

Capiamo adesso cosa voleva dire, forse, Borges: forse arriveremo a meritarci un mondo senza governi, dopo che l’incoscienza e inavvedutezza di tanti governi, da Peron a Menem l’hanno sprofondata nella palude del terzo mondo.

Argentina come l’Italia e Italia come l’Argentina: l’Argentina somiglia all’Italia o l’Italia somiglia all’Argentina? Forse è solo esteriorità, perché noi non abbiamo niente di quella dolce e significante tristezza, di quel silenzio e di quel desiderio di giocarsi la vita in un attimo; noi non sopportiamo quel gusto di cose che non s’usano più, non abbiamo una Evita da ricordare, né Borges e Bioy Casares da leggere, e non abbiamo nemmeno la religiosità laica che gli argentini hanno.

Non ci credete? Entrate nella Ventana, accolti dall’immagine di Evita sul balcone che sembra cantare Dont cry for me Argentina e fissate i volti dei ballerini: perdetevi nella loro fissità intensa: quante ne avete sentite sul tango? E’ una religione, è una filosofia di vita, è cultura…. D’accordo, ma che è una preghiera forse non l’avete sentito mai, eppure il tango “figurato” (come diciamo noi per distinguerlo dal nostro volgare schema di passi delle scuole di ballo), con le sue regole fisse, di gioco elementare del maschio e della femmina in cui l’uomo è co-protagonista, la spalla che assiste la donna mentre disegna geometrie impreviste di assoluta bellezza per significare l’irruzione dell’inconscio e dell’eros nella vita quotidiana, un dramma dell’antinomìa tra l’inquietudine e la forma, con i danzatori che nella danza si spersonalizzano come fossero astratti dalla materialità che sta loro intorno, è un esercizio ascetico, un rito di purificazione da una tristezza oltre la storia che intride il sangue e la radice dell’essere.

L’espressione persa della ballerina che si leva sul braccio del partner è di una solitudine e di una angoscia lunga e sottile che è possibile cogliere solo in certe icone sacre. E Dont cry for me Argentina diventa allora un inno di dolore, struggente e ossessivo, che si avvita a se stesso come un bolero.

Le immagini fotografiche, così, sono diventate scrittura, e questa scrittura non descrive ma racconta, e racconta per blocchi di significato, per tranches de vie, come nel Mondo di Ambrosia e Salvatore, delicata storia d’amore e di povertà felice.

E’ la povertà, l’intensità del vivere e lo stupore di essere nonostante tutto ancora al mondo il tema fondamentale di Giuseppe Cannoni, e questo tema, trattato col rigore del metodo e la costanza tenace propria dell’artista che non licenzia la sua opera se non l’ha completata, è un esempio rarissimo di scrittura fotografica, e di narrativa, che non ci era stato dato di cogliere neanche in un fotografo come Cartier Bresson, forse perché Cannoni è proprio un fotografo che a passo di tango va con la macchina fotografica levando lampi di luce e di colore, e sfumate tristezze d’ombra.

Franco Trequadrini

22 dicembre 2004

IN ARGENTINA A PASSO DI TANGO CON LE FOTO DI GIUSEPPE CANNONI

Le immagini scorrono mentre una musica malinconica fa sorgere lontane e bollenti nostalgie di quando solcarono le onde dell’Oceano gli emigranti italiani coi piroscafi, e con essi un giorno Dino Campana che fuggiva dalla foresta pietrificata che era diventata l’Europa, incantato al bagliore magnetico delle stelle, con in cuore e nei sensi le immagini dei porti, le prostitute colossali, e pensando alla casa tetra di Toscana e ai manicomi dell’adolescenza si scioglieva in un passionale grido: per noi che piangiamo gridiamo: fede all’azzurro…

Fino a Buenos Aires: avamposto d’Europa nelle Americhe, volto sofferente della delusione del sogno americano, vissuta sulla pelle e nel sangue, e presenza inquieta nella nostra coscienza di europei rimasti legati alla nostra antichità, anche alla povertà, che ci ha difeso dall’urto arrogante e violento dell’America. Buenos Aires, grande capitale del rimpianto, accoglie coi suoi cortei di gauchos che ogni giorno s’inventano la vita, e di pensionati che sfilano in camicette a mezze maniche come i nostri pensionati che l’estate tornano al paese, e ci mozza il fiato col suo déjà vu, così carica dei nostri ieri, delle sue auto scarburate e stanche (dice così la canzone di Francesco Guccini), di quelle macchine che ormai sono la nostra preistoria, e le sue carni alla brace, la Coca Cola, i suoi caffè, le villette col cane, il cimitero con la tomba di Evita Peron, ultima signora che fece credere alLa gente che una donna del popolo poteva pur diventare la prima donna, e si spense poi come un lume acceso sul tavolo mentre le coppie si avvitano nel tango.

Nelle avenidas e nelle gallerie si dischiude tutta, l’Argentina ricca e povera allo stesso tempo; l’Argentina che avrebbe potuto essere ricchissima e invece è poverissima e agli angoli delle strade vende disegni e quadri, mentre i bambini laceri e affamati si aggirano con gli occhi sgomenti tra i turisti e i figuranti che fanno eseguire qualche passo di tango alle signore straniere; Argentina lacera con i vecchi che dormono sulle panchine e dignitosa nel suo silenzio e nell’imbarazzo di chi ha mancato una promessa ma ha un passato da difendere…

Capiamo adesso cosa voleva dire, forse, Borges: forse arriveremo a meritarci un mondo senza governi, dopo che l’incoscienza e inavvedutezza di tanti governi, da Peron a Menem l’hanno sprofondata nella palude del terzo mondo.

Argentina come l’Italia e Italia come l’Argentina: l’Argentina somiglia all’Italia o l’Italia somiglia all’Argentina? Forse è solo esteriorità, perché noi non abbiamo niente di quella dolce e significante tristezza, di quel silenzio e di quel desiderio di giocarsi la vita in un attimo; noi non sopportiamo quel gusto di cose che non s’usano più, non abbiamo una Evita da ricordare, né Borges e Bioy Casares da leggere, e non abbiamo nemmeno la religiosità laica che gli argentini hanno.

Non ci credete? Entrate nella Ventana, accolti dall’immagine di Evita sul balcone che sembra cantare Dont cry for me Argentina e fissate i volti dei ballerini: perdetevi nella loro fissità intensa: quante ne avete sentite sul tango? E’ una religione, è una filosofia di vita, è cultura…. D’accordo, ma che è una preghiera forse non l’avete sentito mai, eppure il tango “figurato” (come diciamo noi per distinguerlo dal nostro volgare schema di passi delle scuole di ballo), con le sue regole fisse, di gioco elementare del maschio e della femmina in cui l’uomo è co-protagonista, la spalla che assiste la donna mentre disegna geometrie impreviste di assoluta bellezza per significare l’irruzione dell’inconscio e dell’eros nella vita quotidiana, un dramma dell’antinomìa tra l’inquietudine e la forma, con i danzatori che nella danza si spersonalizzano come fossero astratti dalla materialità che sta loro intorno, è un esercizio ascetico, un rito di purificazione da una tristezza oltre la storia che intride il sangue e la radice dell’essere.

L’espressione persa della ballerina che si leva sul braccio del partner è di una solitudine e di una angoscia lunga e sottile che è possibile cogliere solo in certe icone sacre. E Dont cry for me Argentina diventa allora un inno di dolore, struggente e ossessivo, che si avvita a se stesso come un bolero.

Le immagini fotografiche, così, sono diventate scrittura, e questa scrittura non descrive ma racconta, e racconta per blocchi di significato, per tranches de vie, come nel Mondo di Ambrosia e Salvatore, delicata storia d’amore e di povertà felice.

E’ la povertà, l’intensità del vivere e lo stupore di essere nonostante tutto ancora al mondo il tema fondamentale di Giuseppe Cannoni, e questo tema, trattato col rigore del metodo e la costanza tenace propria dell’artista che non licenzia la sua opera se non l’ha completata, è un esempio rarissimo di scrittura fotografica, e di narrativa, che non ci era stato dato di cogliere neanche in un fotografo come Cartier Bresson, forse perché Cannoni è proprio un fotografo che a passo di tango va con la macchina fotografica levando lampi di luce e di colore, e sfumate tristezze d’ombra.

Franco Trequadrini

22 dicembre 2004

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